Vinyl 1x05 - He in Racist Fire
I’m Kip Stevens, fuck your mom! There's your bio
Nelle note della leggenda il rock nasce dalla terra arida di un crocicchio lungo il Mississippi, un patto col diavolo come pietra angolare di una musica che diviene possessione allucinata e intercessione faustiana. Da Robert Johnson a Richie Finestra, cambiano i termini e i nomi sulla carta ma il contratto è sempre lo stesso, all’American Century si barattano anima e musica, soldi e potere. “I’m Kip Stevens, fuck your mom; there’s your bio” sbotta recalcitrante il leader del gruppo proto-punk, ma intanto i Nasty Bits iniziano a scontrarsi con la volontà del loro acquirente, piegati ai primi compromessi per un imminente futuro di fortuna e successo.
He in Racist Fire, puntata che segna il giro di boa della prima stagione di Vinyl, e ancora una volta la musica la fa da padrona. Che sia con le curatissime cover che arricchiscono la colonna sonora (un paratesto che cresce online grazie al calibro dei nomi coinvolti, solo in questo episodio Iggy Pop e Julian Casablancas degli Strokes), con i divi veri e presunti che calcano la scena, o meglio ancora con le costanti interruzioni diegetiche, intromissioni oniriche in cui spettri musicali si impadroniscono dell’immagine. Vinyl è davvero una serie fatta di e per la musica, di cui vuole restituire l’epica dell’evoluzione con un racconto che però fatica a partire nella sua totalità. Perché come si diceva siamo ormai al giro di boa, e nonostante gli evidenti meriti formali e l’energia della ricostruzione storica, Vinyl appare ancora come una serie fortemente in fieri, troppo ancorata alla coazione a ripetere del suo protagonista e poco attenta a quel mondo variegato che lo circonda che troppo spesso ci si accontenta di tratteggiare con un registro grottesco che elide ogni approfondimento psicologico.
Già nella precedente analisi Marco Compiani definiva Devon Finestra l’unico personaggio autenticamente umano della serie, poco dettagliato ma già vero e impietosamente ritratto nelle sue debolezze, nel suo carico di dolore. Non a caso è il suo corpo a diventare il centro della scena più bella dell’episodio, scontro a distanza tra Richie e Hannibal in cui la carnalità femminea diventa il terreno su cui esercitare l’efficacia del proprio potere. Richie non è mai stato più vicino di così a sacrificare sé stesso e la sua vita sull’altare del proprio sogno, chimera che sempre più appare come l’alibi di un’autodistruzione ancorata al vissuto familiare. Entra in campo del resto anche il padre di Richie, creduto morto perché “ci sono tanti modi di morire”, ma intanto necessario al figlio per tenersi lontano (o almeno così crede) dai guai con la legge. E intanto il passato cresce come un fantasma noir, si fa a sua volta allucinazione ridondante a rimarcare ancora una volta come sia la ripetizione a definire la psiche dopata e contratta del nostro protagonista.
Ancorata ad un personaggio simile, vulcanico, egocentrico, teneramente privo di ogni strumento meta-conoscitivo, Vinyl rischia però di perdere di vista il mondo che lo circonda, divorato da una forza centripeta che lascia dietro di sé pochi sopravvissuti. A farsi notare tra le pieghe dell’episodio restano ancora i due contrappunti della American Century, l’ormai allo sbando Clark, sempre più fuori posto, e la combattente Jamie Vine, protagonista di un altro, gelido, ritorno familiare. In mezzo la fine del contratto con Hannibal, cimici e poliziotti cocainomani, schegge di un universo narrativo che fatica a trovare un suo spazio drammatico in una puntata comunque necessaria, evidentemente di snodo, ma in cui Vinyl corre come non mai il rischio di appiattirsi sulla superficie dei propri (ottimi) ingredienti.