Voyage of Time: Life’s Journey
Ogni immagine una Storia, ogni uomo un viaggio nel tempo: il mondo in un batter di ciglia.
Filmare il tempo.
Scoprire, tra uno stacco e l’altro, il mondo.
Accogliere in ogni singola forma, microscopica o macroscopica, animale o vegetale, l’universo.
Ricercare il motore dell’uomo (e del mondo), in aperta antitesi kubrickiana, non nella violenza, non nella sete di conoscenza, ma in una forma sempre nuova, ammaliante e rigenerantesi di eterno amore.
Prendere un film come The Tree of Life e lasciarlo sfogare in schegge impazzite, particelle erranti, filamenti di viaggio, appunti di mondo…To The Wonder, Knight of Cups, Weightless domani. E ritornare non tanto all’albero della vita, ma a quel progetto lontano nel tempo, leggenda tra le leggende dei film mai fatti o mai visti. Quel Q che doveva raccontare la storia dell’universo, dalla sua genesi alla sua distruzione, sognata da un minotauro addormentato in riva a un fiume. Q, come tutto il cinema malickiano, è un’entità polimorfa e mutevole, sfociata in The Tree of Life per poi assumere la sua forma sdoppiata in Voyage of Time (due versioni, quella della “madre” Cate Blanchett di 90 minuti proiettata a Venezia e quella presumibilmente del “padre” Brad Pitt di 40 minuti in Imax).
Il biopic sulla Terra abbandona però il minotauro.
Chi è che sogna? Qual è il presente del film? Da dove viene la voce di Cate Blanchett che accompagna il nostro viaggio? Chi assiste alla nascita di tutto quando non c’erano ancora occhi per vedere?
Schermo nero. L’oscurità porta in grembo tutte le immagini e all’oscurità tutte le immagini torneranno.
La Voce, come in Knight of Cups, viene da un altrove indefinito, astratto, pre-cinematografico, al di là del tempo, al di là della tristezza. Alla maniera di uno spettro invoca, chiama, sussurra, dice una Storia che ricrea tassello dopo tassello. Attraverso una preghiera a cuore aperto modella il mondo: le sue domande incessanti, la sua ricerca senza fine, sono disperate richieste di ascolto (io prego perché qualcuno mi senta). E’ una voce che (ci) cerca. Delle volte, forse, ha paura. Paura di essere dimenticata, paura di essere abbandonata. E allora dà vita al grande spettacolo del mondo, alla proiezione iperdefinita, iperrealistica, di un mito ancestrale. La parola struttura l’informe, estrae particelle di luce dall’oscurità, interroga l’immagine nel suo continuo farsi e disfarsi, nel suo morire e rinascere.
“Madre, camminavi con me nel silenzio prima che esistesse il mondo.”
Voyage of Time inizia a occhi chiusi, con un verbo che è scheggia di luce, firmamento che precede il cielo, trauma del cuore. Una parola d’amore, che dona senza ricevere nulla in cambio (già si era detto, dai tempi di The Tree of Life: ogni immagine ha questa naturale attrazione per l’oscurità, ogni immagine è già pronta a morire a ogni stacco di montaggio. Non esistono dissolvenze in tutto l’ultimo Malick, nessuna trasformazione, ma un infinito ricominciare dalle proprie ceneri). Questa volta l’immagine neonata, come succedeva in To The Wonder, è necessariamente figlia di uno sguardo in bassa definizione.
L’impianto spettacolare, l’alta definizione dell’immagine numerica che vedremo di lì a poco, già si scontra con i pixel di una telecamerina portatile.
Queste immagini così vulnerabili, registrate in diverse parti del mondo, fanno parte dell’enorme repertorio che Malick, viaggiatore leggendario, Salinger del cinema, ha raccolto negli ultimi anni, senza soluzione di continuità.
Madri del mondo, figli della Terra, lampi quotidiani e momenti di improvvisa, indebita violenza. Tutto al tempo di un batter di ciglia (che è ormai il tempo filmico del gesto malickiano). Un anello, lo sguardo di un infante, un tuffo in mare, un tramonto annegato nei pixel. Alla cosmogonia Malick accosta rituali del presente, alla danza di antiche meduse un matrimonio celebrato chissà dove, ai pesci preistorici che si guardano sott’acqua l’esito sanguinoso di una corrida. L’uomo presente, sembra dirci Malick, non può che profilarsi in bassa definizione: la dimensione rituale dell’esistenza esige una visione calata nel mondo, sporcata dal mondo, intrisa di mondo. Il racconto mitico di una grande narrazione focolare, invece, deve superare i limiti dello sguardo, farsi perfetto oltre la perfezione, iperdefinito fino all’estasi febbricitante dell’Imax.
La smania onnivora di filmare tutto, alberi, piante e fiori, madri e figli, ombre di ombre e sogni nei sogni: ancora più che The Tree of Life, Voyage of Time ci pare il racconto di un’acrobazia senza precedenti, quella del cinema digitale. Come ricreare un’immagine che rompa le barricate dello schermo, come risvegliarsi nel cuore vibrante dell’universo, come volteggiare tra gli abissi degli eoni? E allora ci si chiede se anche le immagini sognino. Che sia la bassa definizione stessa a sognare – al posto del minotauro – tutto il tempo della Terra?
Lo spettacolo del mondo prende vita, la danza cosmica ha inizio.
Queste forme, questi colori, queste apparizioni deflagranti, queste continue esplosioni che incendiano l’immagine… lo schermo accoglie fantasie di luce, l’acqua e il fuoco combattono come fossero entità pagane. Macchie, bolle d’aria, cromatismi pletorici che occupano piccole porzioni dello schermo, fino ad assorbire l’intera immagine. Come un tableau vivant che s’interroga sulle origini del movimento, come l’immagine gocciolante di Brackhage che trova un trait d’union arditissimo con fughe disneyane e preistorie herzoghiane.
Le forme, dunque, i volumi, le immagini: l’astratto prende corpo quale materia calamitica, le masse si fondono, si attraggono, si mescolano quali lampi del tempo. E’ questo inquadrare il mondo, questo suo continuo farsi cinema, a farci pensare a una cosmogonia digitale, a un film “impossibile” dove ridar vita a una Storia del cosmo (che è poi una storia dell’occhio, come testimonia l’immagine mediana, straordinariamente pubblicitaria, di quella pupilla che mette insieme pezzi di mondo e frammenti di girato). L’alta definizione porta tutto a nuova vita, il racconto cosmico surclassa il testo didattico per farsi viaggio estatico, odissea su una palingenesi HD. Molte immagini provengono da archivi Nasa o National Geographic, altre le ha girate Malick stesso, altre ancora sono ricreate in CGI: il gesto filmico del regista ormai è quello di montare lo sguardo, allestire la Terra, creare distanze, buchi di tempo. Il documentario scientifico/didattico entra in impasse, stravolge se stesso, si scioglie nel corso della durata.
In sala, il pubblico ridacchia alla vista dei dinosauri in CGI, dimenticando che sono proprio queste apparenti sciatterie la chiave di volta del film. Malick non mostra la Storia della Terra, ma racconta il Cinema della Terra. Fa dell’evoluzione un’immagine e dell’immagine un’evoluzione (il senso del "finto" è la vertigine stessa del cinema, il riflesso deforme della Storia: la CGI è simulacro della Terra).
Il suo gesto filmico, più estremo che mai, è ormai quello dell’ellissi: ogni stacco di montaggio di Voyage of Time è di fatto un voyage of time.
Tra un’immagine e l’altra, millenni di Storia.
Catapultato in questo continuo saltare di foglia in foglia, Malick intercetta una compassione impossibile, un amore che precede il tempo e il Verbo, un affetto primigenio iscritto nel cuore stesso del nostro pianeta. Tutti gli animali del film si sfiorano, si toccano, si guardano…e infine ci guardano. Una scimmia, un dinosauro, una tigre. Gli occhi sono puntati verso di noi, in continui scambi che sono ogni volta un sussulto, un fremito, uno shock percettivo: condividere uno sguardo significa annullare il tempo, eliminare le distanze.
“Madre ti prendo per mano. Non sogno più. Unita a te, foglia su ramo, ramo sull’albero.”
Di Madre in Figlio. Perché non c’è dono che non tema, almeno per un istante, un abbandono. Percepisci, in Voyage of Time, una paura ancestrale, il terrore che tutto questo possa finire. Un dinosauro avanza da solo nella nebbia, “Mi abbandonerai?”. Cos’è che cerca? Cos’è che perde? Tutti i personaggi di Voyage of Time – batteri, dinosauri, pesci, giraffe, scimmie, uomini – sembrano cercare qualcosa: una luce, un bagliore, una sorgente, un punto di convergenza. Una luccicanza. Provano, semplicemente, a chiamarci. Vogliono essere risvegliati.
“Staremo sempre insieme?”
In questo alternarsi di sguardi, in questa storia di pace e violenza, di trionfo e caduta, gli abissi sottomarini dialogano con le sfere celesti, la terra è a un passo dall’acqua ma lontanissima dal cielo. Una mano allora sbarra la strada a un insetto. Apparizione improvvisa, traumatica, perfino più aliena di tutti i mostri preistorici. Un uomo, finalmente un uomo! Con disarmante lestezza, il montaggio si fa sempre più ascetico ed essenziale. L’umanità corre, l’umanità va veloce, fa salti nel vuoto lunghi centinaia d’anni. L’uomo diventa uomo. Dagli utensili al fuoco, e poi un flauto, una risata, ed ecco l’istinto del gioco.
Allora arriva un’immagine, la più significativa di tutto il film, in cui un uomo che non sapeva di essere uomo vede, per la prima volta, il suo riflesso nell’acqua. Si osserva, sembra sorridere, si riconosce forse? Il doppio è la prima immagine, il primo cinema…l’aurora. Forse quell’uomo ha capito di essere un uomo, forse ha visto l’altro, forse ha visto un dio. Subito dopo Malick ci mostra il corpo morto di quel pioniere, come se l’immagine, fin dalla sua prima apparizione, fosse un fantasma, un resto che uccide. Scoprirla, vederla per la prima volta, significa morire a se stessi. Ancora una volta, l’atto di vederci con i nostri stessi occhi: in pochi secondi un intero mondo si spalanca al nostro cospetto, ci guardiamo guardarci, riscoprendo preistorie e futuri digitali. La prima immagine della Storia, la prima ipotesi di riconoscimento, è il peccato originale del film di Malick, il frutto proibito che dona conoscenza. Conoscenza di sé e dall’altro, anelito divino di genesiaca memoria.
“Ho paura di te. Te che dovrei amare.”
Alla scoperta dell’immagine seguono le prime orme lasciate sugli alberi, prima furtive, poi sempre più consapevoli. Residui di passaggio, albori di coscienza. Gli uomini imparano a conoscere la morte (e forse per questo si amano). Si aiutano l’un l’altro. Alla comparsa dell’uomo, Malick accosta, legittimamente, In Principio era il Verbo di Arvo Pärt e tutto si fa più veloce, come se non ci fosse più tempo. Tempo...rimane solo il tempo per immagini-mondo, blocchi evolutivi, singoli istanti che trascinino dentro tutta la Storia e tutto il peso del Giorno e della Notte. Un’ellissi miracolosa allora ci porta dalle prime costruzioni in pietra alla visione vertiginosa della grande metropoli. Tre inquadrature di Dubai dall’alto, un gioco a strapiombo di linee verticali, grattacieli come spettri della notte (come nella Los Angeles di Knight of Cups): Malick non mostra gli uomini del presente, come se l’alta definizione non fosse cosa per loro. L’unico modo per rappresentarli è il turbinìo di immagini in bassa definizione, il terremoto di pixel. Come fossimo ormai parti, frammenti di mondo, fibre di una realtà che scorre in streaming (e in pochi istanti Malick riesce a condensare un discorso sulla virtualità delle immagini, sulla forza delle superfici, sulla patina pubblicitaria del presente che non ha pari). Vediamo in HD solo dei bambini, in particolare una ragazzina che avanza tra gli alberi maestri della metropoli, creaturina elastica in un mondo di giganti.
“Madre, che cosa amo quando ti amo?”
Il film corre necessariamente alla fine dei giorni, quando il viaggio pare terminare. Eppure...
“Ciò che vive in te non può morire”, la voce sussurra dopo la fine del mondo. Ultima, estrema dichiarazione di uno sguardo che considera l’oscurità un punto di passaggio, una sorgente d’immagini, una madre di vita. Bagliore nel buio: se ogni immagine è una Storia, ogni uomo è un viaggio nel tempo. I segreti del mondo sono già dentro di noi, anche se sono sempre pronti a partire. Continuamente ritornanti, rifondiamo la Terra che siamo, cerchiamo l’amore che non possediamo. Sempre in movimento, condannati all’erranza, in un viaggio che non potrà mai finire.
“Le ombre scompaiono. Il tempo risale alla sorgente.”