Westworld 1x08 – Trace Decay
Il pupazzo e la bugia
"We only said goodbye with words, I died a hundred times, You go back to her, and i go back to black" – Amy Winehouse, Back to Black
Storyline e ricordi, tracce narrative che tornano a raccontarsi nella stessa ricorsiva narrazione, come rulli di un piano meccanico che tornano a suonare sempre gli stessi componimenti, come le linee che disegnano a terra un labirinto celebrale. Pupazzi che vivono dentro a grandi bugie. Cos’è il ricordo ed il dolore nelle mente soffice di un pupazzo? Cos’è la coscienza nelle mente di un uomo? Westworld – Trace Decay si pone come una puntata ponte su di un fiume in loop, costruita su due sponde che uniscono da una parte un twist e dall’altra un finale di stagione che si prospetta esplosivo – come la vertebra C6 - ma non certo definitivo. Perché nulla finisce nel mondo creato dalla Delos, dove tutto torna a riproporsi, dove tutto si (auto)distrugge per cambiare forma; con la stessa malleabilità del lavorio sulla creta, su quel tornio che attraverso il suo giro costante, veloce e ripetitivo è soggetto alla delicatezza delle mani, dove con il loro tocco si costruiscono forme per poi disfarle e tornare a rimpiazzarle. La serie della HBO sembra possedere facoltà e prospettive tanto replicanti da renderla infinita. Un guscio prima vuoto, poi pieno, poi di nuovo vuoto. Un guscio, appunto, in grado di contenere sia il mondo del gaming, che il nostro prossimo futuro del VR, sia il simulacro della sua esistenza, da riempire con forme, soggetti, protagonisti, co-protagonisti, narrazioni, trame. Un universo in espansione oltre i limiti del conosciuto, ben oltre l’orizzonte della contemporaneità. «L’umanità, ignorante delle verità che giacciono entro ogni essere umano, guardava verso l’esterno...premeva sempre verso l’esterno». Parola di Kurt Vonnegut in Le sirene di Titano. Questa citazione sembra riassumere la strada che la serie ha intrapreso verso l’esterno del suo guscio, nella definizione della materia del contenitore. In Trace Decay, come in tutte le precedenti puntate, è l’uomo, demiurgo, regista, assassino e tiranno a rivolgere le sue attenzioni verso l’interno, verso il livello più basso, verso l’arrivo metafisico e gnoseologico che punta verso il centro del labirinto. Qual’è il significato della bugia? Cosa resta dentro al cuore di un pupazzo d’argilla? In una scena centrale della puntata Ford si confronta con la sua creazione, Bernard, entrambi consapevoli del loro ruolo e del loro fine. Un faccia a faccia tra un programmatore che conosce intimamente la sua macchina ed una macchina che conosce la sua vera natura. Un discorso che unisce le sue conclusioni senza sciogliersi nella diversità pragmatica e manifatturiera della loro biologica diversità. Il discorso di uno diventa buono anche per l’altro e viceversa, in una contaminazione tra l’essere e la sua creazione. Ed è così che sia i residenti che gli ospiti finiscono ad essere tutti delle specie di finzioni, dove al ricordo del primo si sostituisce l’antefatto del secondo – cambia il termine ma non il significato – dove il dolore è capace di rendere vivo ma non reale; un discorso che si conclude con una domanda esistenziale di natura sia umana che androide: Che differenza c’è tra il tuo dolore ed il mio? Il dolore esiste sempre nella testa, è immaginato. Alla luce di questo principio di commistione esistenziale non possiamo allora sorprenderci se l’unica possibilità in più che l’uomo ha rispetto alla macchina sta nel fatto che il primo ha la possibilità di formattarlo. La traccia in decadenza che memorizza i ricordi e le personalità del residente viene più di una volta messa in pericolo, scorrendo vicino al tasto di formattazione. E se Maeve riesce a combattere fuggendo alla sua cancellazione, acquisendo così le capacità coercitive del creatore – avanzando così in un personaggio le infinite possibilità del narratore e, di conseguenza, della vendetta dell’andoide -, la stessa fortuna non l’avrà Bernard indotto dal ricatto ad essere salvato dal suo dolore e dal suo ricordo, solo successivamente cancellato. Le possibilità di metempsicosi sono infinite in Westworld. Se si riescono a cancellare personaggi reali, umani, dalle tracce da essi lasciate all’interno della narrazione (vedesi la rimozione delle prove della morte Theresa), diventa allora verosimile e possibile che residenti disattivati, inclusi nel limbo degli androidi, come l’ex Peter Abernathy, tornino a scendere dal treno avendo un ruolo da ospite. Uno scambio di ruoli tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra ciò che è una macchina e ciò che è un uomo: entrambi prodotti risultanti della stessa finzione. La verità del ricordo e la possibilità di mettere alla prova la propria indole. Una puntata che si costruisce di racconti che definiscono e strutturano i personaggi, che riempiono i vuoti lasciati scoperti nelle precedenti sette puntate. E’ tra il gioco di Ford ed il gioco di Arnold, tra il labirinto che si definisce tra queste due figure che si narra, attraverso l’uso della rimembranza, la storia personale del personaggio più mefistofelico ed enigmatico di tutta la serie. Lui è il filantropo dalle buone azioni, il mostro che si nasconde dietro al muro della rispettabilità, la stella nera dal braccio violento, senza compassione alcuna. L’uomo in nero, Ed Harris, si prospetta essere lui il tramite esecutivo di unione di questi due giochi, dove da una parte del tavolo siede il vivo Ford, dall’intelletto razionale, il Turing del dolore e del gaming, e dall’altro un’identità celata, il Dio buono e compassionevole che si muove dal core dell’androide, il centro dell’inestricabile labirinto: Arnold. Impossibile chiudere senza fare riferimento alle note del piano meccanico che, ad ogni risveglio, racconta e definisce l’evoluzione narrativa della puntata. Da Fake Plastic Tree dei Radiohead che nelle precedenti puntate ha definito la realtà plastifica della creazione della Delos – "Her green platic watering [..] in the fake plastic earth, that she bought from a rubber man in a town full of rubber plans – all’attuale canzone Back to Black che suona sopra la vendetta di un pupazzo morto cento volte. L’unico ad avere sovvertito pienamente la massima del sonno profondo e senza sogni arrivando ad essere la regina di silicone di una rivoluzione prossima, ed infuocata.