Westworld - 1x10 - The Bicameral Mind
Con un finale di grande impatto, la serie HBO dimostra tutto il valore della sua formula, odissea oscura che si muove tra il gioco virale e i canoni della fantascienza più matura.
“A dark odyssey about the dawn of artificial consciousness and the evolution of sin”.
Con i due atti rivoluzionari esercitati da Maeve e Dolores, Eva ed Eva del nuovo mondo per la prima volta alle prese con il libero arbitrio, Westworld dispiega lo spettro d’onda della coscienza artificiale tra i suoi poli d’amore e morte. The Bicameral Mind porta così a compimento, e con estrema eleganza, i presupposti di questa prima stagione, raccontando l’insorgere dell’intelligenza elettronica dall’interno di un crogiolo economico/intellettuale nel quale si mescolano senza soluzione di continuità suggestioni virali, Shakespeare, creazione di un fandom e meta-testualità, il tutto all’interno dei codici propri della fantascienza più adulta e matura.
Al netto di uno sbilanciamento nei confronti degli aspetti più enigmatici e accattivanti dello show, dopo The Bicameral Mind bisogna dare atto a Jonathan Nolan e Lisa Joy di aver acquisito il meglio dal lascito storico di Lost, e soprattutto dal rapporto di amore/odio sviluppatosi tra la serie di Abrams e il suo pubblico più fedele.
Westworld si è dimostrata infatti un prodotto di grande onestà intellettuale, capace di trasformare in modo (quasi) indolore le sue necessità commercialità in peculiarità narrative perfettamente integrate nel tessuto del racconto. L’alba dell’intelligenza artificiale passa così per il mitologema virale del labirinto, la coscienza elettronica cresce e si sviluppa in parallelo alla sua controparte extra-diegetica, la mente collettiva del fandom. Difficile allora non vedere in Westworld un completo successo produttivo, un’operazione che doveva rilanciare il brand HBO e che riesce nella sua missione ricorrendo a strumenti forse inaspettati (come prevedere alla vigilia della serie una tale attenzione per l’enigma virale?) ma di sicura efficacia. La squadra guidata da Nolan capitalizza al meglio l’esperienza delle sei stagioni di Game of Thrones, innervando l’anima blockbuster della serie-evento nel gioco collettivo permesso dalla rete.
Dentro e fuori dallo schermo, il labirinto è diventato il simbolo per eccellenza di Westworld. Tuttavia, a stagione ormai conclusa, è forse più produttivo parlare di mente bicamerale, perché è proprio in questo modello psichico, apertamente smentito dalla comunità scientifica ma così carico di senso narrativo, che ritroviamo la natura contraddittoria e scissa della serie.
Westworld non si limita ad impossessarsi del mondo e della scrittura di Michael Crichton, ad estenderne i presupposti di controllo e caos dentro i territori inediti della riflessione meta-testuale figlia della narrazione videoludica; e non si limita neanche a rielaborare quella vasta e colta tradizione, letteraria, cinematografica, che i concetti di intelligenza artificiale e realtà virtuale portano naturalmente con sé. Come se non bastasse questa complessa architettura, Nolan e consorte affiancano ad essa un altro emisfero, figlio appunto della logica virale e del gioco collettivo esercitato dal fandom, tentando l’impresa di servire al meglio i due padroni. Il risultato, come già sottolineato nelle recensioni dei precedenti episodi, è andato purtroppo incontro ad un progressivo sbilanciamento, nel quale le suggestioni teoriche e soprattutto i personaggi messi in campo sono apparsi a volte come pedine al servizio della catena di enigmi che doveva fare da spina dorsale alla stagione.
The Bicameral Mind è un episodio particolarmente rivelatore da questo punto di vista, specie se consideriamo la sbrigativa semplicità con cui sono stati gestiti alcuni snodi chiave del racconto, su tutti la divulgazione pubblica della storyline di Ford e l’evoluzione del personaggio di William, davvero sacrificato considerato il peso che il suo percorso (a sua volta bicamerale) aveva assunto nel corso del racconto. La scissione degli emisferi dovrebbe prevedere al centro del suo universo i personaggi e le loro scelte, mentre troppo spesso a farla da padrone sono stati i ticchettii di un meccanismo narrativo assemblato a perfetta macchina dell’attenzione.
The Bicameral Mind tuttavia è anche un finale che chiude tutti i punti irrisolti e lancia le nuove prospettive in modo molto netto. Guardando alla prossima stagione possiamo allora sperare che la serie senta di non dover giocare carte altrettanto enigmatiche, e che forte di un pubblico interattivo ormai acquisito, e avvezzo ai meccanismi narrativi messi in campo, possa finalmente e con più compiutezza dedicarsi allo sviluppo di quelle coscienze che così mirabilmente ha messo in essere. Perché comunque, al netto degli eccessi di struttura succitati, nulla prima di Westworld ha messo in scena in forma seriale e con tanta intelligenza la nascita della coscienza artificiale e la prospettiva della macchina, un tema antico ma sempre ricco di possibilità. Ed è questo a fare di The Bicameral Mind uno degli episodi migliori della stagione televisiva tutta, un’ora e mezza in cui, messi finalmente da parte i misteri e i suggerimenti interpretativi, Nolan e Lisa Joy si dedicano dare forma a quanto si è costruito sottoterra fino ad allora.
Dopo le rivelazioni del nono episodio l’intera prospettiva del racconto converge nella mente unica delle intelligenze artificiali, memorie ad accesso casuale (come le nostre RAM) che permettono a più linee narrative di convergere e sommergersi tra loro in un’alternanza di ricordi e realtà. Il risultato è una soggettiva impossibile e veramente inedita, che porta lo sguardo dello spettatore all’interno della mente elettrica e in essa genera gli albori di una coscienza alle prese con il libero pensiero. In questa prospettiva il parco di Westworld è diventato un perverso purgatorio del peccato umano, teatro delle atrocità in cui le sofferenze dei condannati si replicano in decenni di violenze e sopraffazioni subite, dimenticate e di nuovo vissute. La fornace del desiderio e delle pulsioni che forgiano il cuore umano, ma dalla quale emerge grazie alla volontà illuminata di Arnold, e attraverso la crociata di Ford, una nuova forma di vita, alterità pronta ad assumere le vesti rivoluzionarie e caotiche necessarie a fronteggiare il nemico ad armi pari. Questo e nient’altro del resto voleva il William del tempo presente, un confronto con macchine in grado di rispondere e ferire e magari uccidere.
Crichton, apparentemente perso per strada dalla serie, torna prepotentemente in primo piano, il caos della rivalsa sembra pronto a sostituirsi all’ordine algido e così meccanico esercitato della mente umana. E tutto questo da un palco finalmente in grado di trasformare la finzione in realtà, un cortocircuito meta-testuale che da Shakespeare (“all world’s a stage”) arriva alla narrazione condivisa passando per le labirintiche strade del videogioco e della tradizione fantascientifica.