The Woman Who Left
The Woman who Left è un film fatto di piani stretti sui corpi, vicinanze inattese, carezze, gesti d'amore e persino di raccordi.
“E se invece fingere funzionasse?” Lav Diaz riparte dal punto in cui aveva lasciato i personaggi del capolavoro Melancholia, ovvero dal gioco dei ruoli e delle identità multiple come estremo tentativo di restare aggrappati alla vita, inventandosi un alter-ego, o anche più di uno, che mandi all’aria il passato, offrendo l’illusione di una rinascita. L’obiettivo ancora una volta è di colmare le distanze, riannodare i fili interrotti dal trauma. La protagonista di The Woman who Left, Horacia riemerge dal fuori campo della Storia dopo trent’anni di ingiusta reclusione, causata dall’ex compagno Rodrigo Trinidad che per ripicca l’aveva fatta condannare per omicidio. Siamo nel 1997, anno cruciale più per Hong Kong (tornata nelle mani della Cina) che per le Filippine, piombate nell’epoca buia dei sequestri di persona e della violenza incontrollata. In questo clima di paura, incertezza e solitudine, che coinvolge anche la famiglia della donna (marito deceduto, figlia indipendente e lontana, figlio scomparso nel nulla), si fa strada il desiderio di vendetta. Per raggiungere il suo proposito, Horacia si inventa una doppia vita: di giorno gestisce una piccola trattoria, mentre di notte indossa abiti maschili e vaga per la città alla ricerca d’informazioni su Rodrigo. Nel corso di queste lunghe peregrinazioni notturne, incontriamo un venditore ambulante, detto gobbino, e un travestito, Hollanda, che condivide con Horacia la doppia identità (dal femminile al maschile e viceversa). Nel gioco dei ruoli tutto sembra confondersi: la donna viene chiamata alternativamente Renata o Leticia, sia di giorno che di notte, sia in abiti femminili che in quelli maschili. Insomma, nessuno sembra credere al suo travestimento eppure il gioco prosegue, complicandosi. Anche Rodrigo partecipa a distanza, quando, nel corso di una chiacchierata-confessione con un prete, dichiara espressamente la natura finzionale del proprio ruolo di cattivo senza scrupoli. Ma Lav Diaz è interessato fino ad un certo punto alla chiarezza, quel che gli sta a cuore è il racconto del territorio, il punto di vista etico/politico su una comunità defraudata delle proprie terre e divisa da profonde iniquità. In questo senso basterebbe vedere il magnifico detour finale, in cui la ricerca del figlio va smarrendosi, insieme con il film, tra i vicoli e le piazze di Manila, filmate da Lav Diaz come fosse un documentario sulla città e la sua infinita desolazione.
Prima di arrivare a quel punto, assistiamo all’alternanza quasi metrica tra il giorno e la notte, dove il buio prende sempre più spazio, fino a far sprofondare il film nelle zone d’ombra della strada, negli angoli più bui, in cui i contorni si perdono e i corpi si stagliano come silhouette agonizzanti. La strada appartiene ai poveri, ai mendicanti, alle prostitute, accuditi da Horacia, novella Irene di Europa 51. Dall’altra parte, i potenti sono chiusi nelle loro case, scortati dalle guardie del corpo. Per trovarli bisogna andare in chiesa, la domenica. Cosa che ovviamente Horacia fa più volte, senza tuttavia trovare il coraggio di premere il grilletto. E allora, come ogni sera si torna in strada, ogni volta più stanchi, ogni volta più sfiduciati. I vecchi propositi si affievoliscono, mentre emerge la compassione per un mondo al collasso e senza più speranza che si aggrappa ad una fede isterica, ossessionata dal diavolo (la vagabonda Mameng) o dal paradiso e dal miracolo (il venditore ambulante). Contraltare della relazione tra potere e religione, che da sempre attraversa il cinema di Diaz. Il film presenta numerose dialettiche: giorno / notte, buio / luce, strada / chiesa, Interno / esterno, corpi transgender (Horacia e Hollanda ) / corpi "mistici". Segno di un ordine strutturale praticamente inedito in Diaz. L’arco narrativo si allarga spesso, senza mai spezzarsi, seguendo le consuete linee che portano alla foresta. Il setting urbano contribuisce alla stabilità narrativa, al suo rigore. Anche il tempo, solitamente impastato di presente, passato, visioni e miti, risulta lineare. Ma dentro questa linearità troviamo delle aperture, che si manifestano nelle numerose false piste che il film traccia: il presunto ritrovamento del cadavere del figlio, la possibile coincidenza tra il travestito ed il figlio, il compimento della vendetta, disatteso, almeno secondo le previsioni, ma coerente con il cuore del film che è il motivo del travestimento, del doppio. Non stupisce allora il passaggio di testimone tra Horacia e Hollanda, legate dal tema della morte (la prima cerca vendetta, la seconda il suicidio) nonché dal percorso di definizione di un’identità nuova, rinnovata, che per Horacia non vuol dire tanto l’alterego notturno, quanto piuttosto quello diurno, in un processo di definitivo affrancamento dalle cicatrici, dai segni della prigionia (i tatuaggi, la violenza incontrollata). Stesso discorso per Hollanda, che nell’isola di Mindanao cerca di vivere appieno la sua identità sessuale, lontana dal condizionamento della famiglia, ma alla fine arriva a spogliarsi del proprio "costume", accettando il suo corpo maschile. Il motivo della trasformazione lo troviamo anche nel modo in cui Lav Diaz gestisce ed utilizza i riferimenti ai codici di genere. Il film inizia come un prison movie, sebbene perlopiù en plein air. Poi, con la scarcerazione si inoltra nelle atmosfere del thriller e del revenge movie, spezzate da alcuni sublimi momenti musical, con tanto di danze solitarie nel cuore della notte e canzoni cantate a squarcia gola, ad invocare la benevolenza del fato, sognando l’altrove. Somewhere, come la canzone di West Side Story, da qualche parte dove trovare finalmente pace.
Ma le speranze sono destinate a tramontare all’alba. Il passato resta un rimosso, un grande buco nero che sembra attrarre i corpi, spingerli verso l’oblio, lo smarrimento, la sparizione. Il fuori campo come condanna inesorabile per chi, come Horacia, si colloca suo malgrado dall’altra parte, fuori gioco rispetto alla storia e al destino del proprio paese, negato dalla reclusione – una reclusione perpetua, come recitava il vecchio titolo del progetto – nel buio in cui dice di aver imparato a difendersi e ad alzare le mani. E allora per quanti tentativi possa fare, il risultato è comunque la sconfitta. “Le sue mancanze non potranno più essere colmate. Non c’è più tempo. Tutto è perduto”. Proprio come in Melancholia non c’è rimedio alla tristezza. Lav Diaz oppone al martirio quotidiano una grammatica filmica differente, la durata delle inquadrature diminuisce drasticamente, mentre la distanza tra la macchina da presa e i corpi si assottiglia. The Woman who Left è un film fatto di piani stretti, vicinanze inattese, carezze, gesti d’amore e persino di raccordi, perlopiù sul movimento. E’ un film fondato sulla compassione, sul perdono, che prova a scardinare pratiche in odore di maniera, interrogandosi ancora sul senso del fare cinema, sulla messa in scena come sguardo sul mondo. Un cinema senza risposte che, proprio come il suo magnifico personaggio, arriva a farsi girare la testa per trovare una direzione.