Into the Woods

Invece che perdersi Into the Woods il film di Rob Marshall inanella con attenzione una canzone dopo l'altra, senza immettere alcun elemento autenticamente cinematografico.

Frutto di sentieri che si intrecciano e biforcano, il bosco non può che essere un’entità contradditoria, un locus assieme horridus e amenus che nelle circostanze opportune può farsi sede di sventure e pericoli, ma anche di incontri lieti e inaspettate fortune. Del resto nella tradizione occidentale il bosco diviene il topos ideale per rappresentare la vita in tutte le sue casualità ed evenienze, un’immagine che racchiude insieme il pericolo dello smarrimento e il caos imprevedibile all’interno del quale si intrecciano i fili delle esistenze. Esistenze in questo caso fittizie, perché in ogni favola c’è un bosco (ovviamente), e perché mai allora dovrebbe trattarsi di una selva sempre diversa? Forse tutte le fiabe condividono lo stesso universo narrativo, forse tutti i loro personaggi finiscono per smarrirsi sempre nello stesso posto. Into the Woods, appunto.

Prodotto dalla Disney, diretto dal coreografico e debole regista Rob Marshall, Into the Woods poteva essere ben altro. Quasi sicuramente qualcosa di meglio se il progetto di trasporre il bel musical di Stephen Sondheim e James Lapine si fosse concretizzato negli anni Novanta, quando la Columbia arrivò lì lì a mettere in piedi un adattamento che vedeva coinvolti tra gli altri Billy Crystal e Meg Ryan. Oggi infatti quest’intreccio ariostesco di fiabe parte già in ritardo, dopo gli sberleffi di Shrek, la serialità di Once Upon a Time e soprattutto il crossover di Fables, vera avanguardia fumettistica di questa nuova ondata di favole. Un esito paradossale considerato che il musical originale andò in scena nel 1986, anticipando nei fatti tutti quei prodotti che oggi fanno apparire questo Into the Woods un film stanco e ben poco originale.

Ad aggravare il senso di noia e di già visto interviene lo stesso Marshall, mai come in questo caso pigro e svogliato nell’offrire un’autentica trasposizione cinematografica dell’opera di base. Forse anche la presenza in sede di sceneggiatura dello stesso Lapine non avrà aiutato, ma resta il fatto che Into the Woods è un film praticamente trasparente tanta è la sua inconsistenza cinematografica, privo di un qualunque guizzo, una qualunque idea di regia che possa infondere una personalità o un senso ulteriore a ciò che viene già offerto dal testo. Ben venga la regia apparentemente invisibile, ma se all’assenza di uno sguardo forte viene meno anche la stessa costruzione filmica c’è qualcosa che non va. Il risultato è un film che – nonostante i suoi lunghissimi 125 minuti – sembra andare sempre di corsa, passa affrettato da una canzone all’altra senza cercare delle coordinate spazio-temporali cinematografiche che gli siano proprie, senza creare un minimo di atmosfera. Esito paradossale per un film che proprio dalla figura retorica del bosco trae il suo senso d’esistere.

Certo, il cuore del musical originale viene preservato e confezionato per un pubblico infantile con discreta efficacia, ma il meglio di sé Into The Woods lo deve alla sua anima originale, quella sì vispa ed intelligente, capace di recuperare la tecnica dell’entrelacement resa celebre da Ariosto per intrecciare in parallelo storie diverse dalla cui unione trarre una nuova, inedita, morale: attento a quello che desideri. Nel film che arriva in sala il cosiddetto messaggio rimane, le spruzzate di ironia e la bravura di alcuni protagonisti (Emily Blunt e Chris Pine su tutti) aiutano, ma l’insieme fatica davvero a rimanere a galla.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 01/04/2015

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