Quando un film si propone di raccontare l’esistenza di una persona famosa si assiste di frequente al fenomeno di una forzata selezione di alcuni eventi salienti che possano restituire se non l’interezza, almeno il senso di quella vita. Guardando Yves Saint Laurent in questa chiave si può certo biasimare l’assoluta frammentarietà della storia costretta in veloci sequenze che riassumano la scalata a star della moda del giovanissimo stilista francese, nato ad Algeri, dagli inizi come braccio destro di Christian Dior, alla nascita della propria casa di moda assieme al compagno e socio Pierre Bergé: cinquant’anni di eccessi, problemi psicologici, rivoluzioni stilistiche e intuizioni geniali scorrono velocemente di fronte allo spettatore senza offrire un reale approfondimento sulla tematiche artistiche di un uomo che elevò la sartoria a vera arte creativa. Quel che però in cambio si riceve dalla visione del film è il tentativo piuttosto riuscito di rendere la personalità fragilissima dello stilista, doverosamente puntellata dal compagno di una vita che lottò per trovare i fondi economici per fondare la Maison, si occupò della parte burocratica, amministrativa e manageriale dell’azienda e infine si adattò nella coppia al ruolo di rifugio, roccia, ovvero colui su cui fare affidamento. Yves Saint Laurent viene infatti tratteggiato, forse al limite dello stereotipo, come il creativo che vive su una nuvola, incapace di di sapersi muovere nella vita reale, bravo solo nel proprio lavoro ma, come spesso capita, spaventato dalle responsabilità che il crescente successo proietta sulle sue spalle. Il film, in quanto autorizzato dallo stesso Bergé – al contrario della parallela opera di Bertrand Bonello in arrivo in autunno sugli schermi francesi, con Gaspard Ulliel e Léa Seydoux – presenta una lettura della storia ben codificata, a partire dalla messa all’asta della ricca collezione d’arte della coppia alla morte di Sain Laurent che apriva anche il documentario di Pierre Thoretton L’amour Fou (2009) fino all’immensa pazienza di Bergé di fronte a un compagno sempre più scapestrato, prigioniero della droga e della depressione.
Se questa visione dei fatti corrisponda alla realtà è una cosa che non è dato sapere, ma in compenso l’opera di Jalil Lespert conserva la qualità di saper rendere perfettamente le complesse dinamiche dietro un rapporto sentimentale, anche grazie all’energica interpretazione dei suoi principali protagonisti (Pierre Niney e Guillaume Gallienne) capaci di restituire sullo schermo, oltre ogni incomprensione, un gran senso di tenerezza. Yves Saint Laurent sembrava corrispondere in tutto al canone dell’artista ipersensibile: timidissimo, facile all’entusiasmo come alla disperazione, bambino viziato e sempre sul punto di una crisi di nervi. Pierre Bergé era allora costretto a essere il padre – talvolta severo – di tale prodigioso infante, sempre però certo del suo immenso talento: una relazione resa nel film negli sguardi durante quelli eventi caotici e stressanti che sono le sfilate di alta moda, quando non rimane più tempo per discutere e solo i sentimenti essenziali affiorano in superficie. Ripetiamo, se questa sia la visione prediletta di Pierre Bergé, un racconto parziale degli avvenimenti, teso a mettere in buona luce il compagno superstite, non è possibile saperlo; ma se assomiglia anche solo un poco alla relazione reale fra i due, questo basterà a connotare il loro legame come una grande, dolcissima, per quanto difficile, storia d’amore.