Zemeckis / The Walk - L'equilibrio delle nuvole

Il gesto poetico ed anarchico del funambolo come azione performativa riempitiva, nell'effimera camminata onirica tra i due simboli di uno spazio vuoto.

"Perché prima di mettere il piede a terra un risultato, per quanto minimo, dev’essere raggiunto: dopotutto è in gioco il titolo di funambolo, e il filo va lasciato per gloria piuttosto che per stanchezza. Ora che il funambolo sa come condurla, la seduta di allenamento sarà ogni volta più lunga, più preziosa, la giornata non avrà più senso se non sotto forma di filo."

"I limiti esistono soltanto nell’anima di chi è a corto di sogni"

Philippe Petit – Trattato di funambolismo

Il cinema di Robert Zemeckis ha da sempre suggerito il sogno - lucido e cinematografico - come contenuto riempitivo di una fase REM adatta alla veglia, luogo da sovvertire attraverso una fantasia di contatto tra entità/mondi distanti, una fuga dalla brutalità della realtà attraversando un ponteggio cinematografico e narrativo che riesca ad unire luoghi prima irraggiungibili. Che sia una viaggio nel futuro, o una corsa liberatoria da uno stato di brillante deficienza, o che abbia le fattezze di una sfera attraverso la quale resistere alla solitudine, il reale mantiene aperte delle falle attraverso le quali riuscire a sognare, estraniandosi così dal vero contesto vissuto. Limiti non ce ne sono, tutto è plasmabile o curvabile, confini solo remoti, distanti solo una flessione dello spazio tempo. Divincolarsi dalle strette maglie di un confinamento tragico, dal terrore che nel quotidiano si presenta come accadimento improvviso, generando un partenza precipitosa verso il regno del possibile, e tra la bellezza dell’impossibile. Universi in collisione dove si muovono soggetti e personaggi, disegni animati e volti attoriali digitalizzati, il lontano passato ed il vicino futuro, tra corpi divistici plastificati e modellabili, in una totale commistione tra reale e virtuale – tra verità e possibilità.

Alzarsi da terra e camminare tra le nuvole, passi che si alternano uno di fronte all’altro, strisciando elegantemente in sincronia su di un filo teso tra due simboli mostruosi e terribili, incubi inconsci nel sonno dell’America e di tutti gli americani. Nuvole che si addensano nel momento del primo passo (stiamo per caso già sognando?), questo il momento adatto al passaggio ed alla trasformazione tra l’uomo ed il funambolo – anzi nell’uomo già un funambolo e viceversa -, tra la veglia ed il sogno, dalla realtà verso l’immaginario zemeckiano. Rendere concreto l’intangibile, ricostruire digitalmente un vuoto, lasciando che la camminata avanzi verso le coscienze terrorizzate americane, ricostruendo una linea orizzontale effimera nell’effimero digitale, un fil rouge catartico d’unione tra un’azione di terrore ed un gesto estremo di bellezza. L’inchino rivolto a terra, agli spettatori, e l’inchino rivolto al cielo, verso l’impossibile, nei confronti della sorte che, in un secondo momento, si presenterà avversa sotto le sembianze di un gabbiano/fantasma digitalizzato, riconducendo il sogno alla realtà sospesa solo a 417 metri da terra ed il terrore di cadere e credere nel vuoto.

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The Walk incanta sospendendosi sulle altezze della prima regola della magia: ciò che è in basso così è in alto, nell’unione contigua tra cielo e terra con nel mezzo solo un filo, un uomo, un ardente desiderio. E tra queste due identità massimali meta-reali si disegna la linea del possibile, il congiungimento riempitivo di un sogno. Un’azione poetica di avvicinamento tra il vuoto ed il pieno, tra ciò che sopra la testa del funambolo esiste, in quanto desiderio d’altezza, vertice estremo di un sogno (ir)realizzabile che esaspera il sognatore, e ciò che sotto al funambolo rimane, il mondo e le leggi fisiche e gravitazionali che assopiscono i sogni dell’umanità. Un pubblico che può solo guardare, applaudire o commuoversi nei confronti di un magnifico gesto effimero, unico ed irripetibile (riuscendoci solo attraverso il cinema); gesto anarchico di avvicinamento del distante, punto di congiunzione tra il possibile (il sogno) e l’impossibile (la Storia) attraverso una camminata stereoscopica ultra contemporanea. Nodo di contatto tra due tempi: il passato - l’orrore materico del crollo dell’acciaio fuso, e il successivo vuoto oculare di Ground Zero - ed il presente digitalizzato - riproposizione di ciò che è stato e che non può più esistere, funzione questa paradigmatica del cinema del contatto zemeckiano. Effimera la camminata come sono effimere le torri, entrambe non si possono riprodurre materialmente nella realtà, solo il cinema ha il compito di scuotere la verosimiglianza ricreando un ponte duraturo (considerando il film come un oggetto solido che rimane nel ed oltre il tempo fisico) costruito da travi, cavi, sogni, tiranti e torri prima esistite e vere ma oramai reali tanto quanto un sogno digitale. E’ nell’equilibrio sul vuoto che il film di Zemeckis si struttura, è solo attraverso la sintesi tra la sensazione di caduta e la concentrazione dell’equilibrio orientati verso l’avanzamento su di una traccia orizzontale e computerizzata, che il film prende pienamente forma.

The Walk inizia dove Man on Wire di James Marsh non arriva. Entrambi raccontano la stessa identica storia, se in uno si alternano i tempi del racconto e del documentario d’intervista (Marsh), riproponendo l’intensità dell’accaduto attraverso le parole stesse dei veri protagonisti – contenuto imprescindibile dal punto di vista della testimonianza -, nel film di Zemeckis il racconto procede diacronicamente sospeso su una strada narrativa percorsa a piccoli passi, in maniera sequenziale, proprio come la camminata di Philippe Petit da un punto Alfa ad un punto Omega. Zemeckis riesce, attraverso il digitale, a racchiudere in una forma durevole un gesto effimero, se la camminata di Man on Wire si racconta attraverso la parola restituita graficamente tramite la fissità dell’immagine fotografica, il regista dell’Illinois costruisce su uno spazio vuoto una performance comunicante (tra due istanze) in moto dinamico; se fissata precedentemente solo su un dispositivo statico, avulsa quindi dal movimento, Zemeckis arriverà a riconsegnare così al gesto l’azione, la declamazione - visiva – dell’azione poetica contenuta esclusivamente nella pianificazione procedurale, quest’ultima precedentemente cristallizzata – in Marsh - attraverso due medium analogici come la parola e la fotografia. L’accumulo di tensione assunto attraverso la formula del film del colpo grosso, si scioglie definitivamente nella performance riprodotta, digitalizzata, vero raggiungimento di un climax catartico disteso tra la bellezza del gesto ed il terrore dell’assenza, dell’irripetibile e del crollo nella realtà storicizzata, insinuandosi tra le ferite di una Nazione e riconvertendo il dolore in stupore, l’orrore in meraviglia. Un piano terroristico al contrario, simile nella pianificazione ma inverso nel suo fine, strutturato come un attentato o una rapina nella zona rossa, che si risolve esclusivamente nello stupore dell’azione di una camminata, nel gesto di estrema bellezza, punto di contatto con l’incredibile, osservato e vissuto, in una normale giornata lavorativa, dell’americano medio nella city di New York.

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La frenesia delirante emotiva, quel senso di precaria instabilità dovuto all’abbandonarsi tramite le proprie pulsioni – che siano catabasiche come nel personaggio di William Whitaker in Flight o che siano anabasiche come nel personaggio di Petit – sarà il motore di due personalità solitarie, abbandonate alla propria solitudine. «Assapora fremendo quella solitudine: sa che, se ce la fa, sarà funambolo. Vuole allineare alla verticale dei suoi pensieri i suoi dubbi e i suoi timori, per issare fino a sé il coraggio che gli resta»1.

Personaggi che sfiorano la trascendenza verso un’altra realtà che li identifichi come sognatori. Il desiderio volto al raggiungimento dello scopo iniziale porterà Gordon-Levitt/Petit a raccontarsi in prima persona da una realtà altra, frontale al livello spettatoriale, ma laterale rispetto al racconto degli eventi, come un’entità soggettiva che sognando si narra. Zemeckis radicalizza il concetto di verosimiglianza portandoci a domandarsi: e se fosse tutta una manipolazione onirica? Costruito da un narratore onnisciente che decide di mostraci parti visive del sonno? E se i colpi alla bara (che può contenere sia il materiale del colpo che il corpo morto di Petit) battuti in piena notte fossero solo i suoni provenienti da un incubo, incluso da altre porzioni oniriche, che si basano su fatti reali del giorno (o della Storia) appena vissuto? E qui il discorso diventerebbe ancor più interessante, arrivando a porre in analogia lo stato sognante inscritto di tutta la messa in scena, con l’incubo dell’attentato realmente avvenuto, col fatto cronachistico, arrivando a compensare attraverso il cinema quell’american dream deturpato dall’unanime terrore, sostituendo al bad trip un sogno dedicato alla Bellezza. Generato da un incubo storico e nazionale, il cinema si fa voce sul meraviglioso elevando e sovvertendo – nell’incoscio - le immagini reali con altre immagini cine-oniriche. Il cinema usato come palliativo benefico di una Nazione che ricorda l’incubo vissuto, un vuoto esistenziale che Zemeckis colma misurando con un filo le distanze lasciate nell’animo dell’America intera. «Per me l’arte è questo. Il mio mestiere è religare una fune, tendendola da un punto all’altro, tra due luoghi che altrimenti sarebbero destinati ad essere separati per sempre. Con la mia fune, per un lasso di tempo breve ed effimero, cinque minuti, mezz’ora, creo qualcosa in quello spazio. Poi la fune scompare, ma la gente ne conserva il ricordo»2.

Il corpo del funambolo diventa così un mezzo sensibile attraverso il quale percepire la realtà circostante. Il rapporto tra l’uomo e la fune non può che avvenire attraverso contatto epidermico, se quando la si attraversa camminando la si soppesa, la si accarezza, la si sente, attraverso il contatto piede fune, così anche nella notte è attraverso il corpo che si cerca il proprio mezzo, denudandosi si cerca di percepire il filo nell’unico modo possibile, sentendolo sulla carne. «Diventerete corpo unico con l’installazione, solidi come una roccia. Ci si sentirà oggetto d’equilibrio. Si diventerà il cavo»3

Un filo di speranza a sublimare il vuoto, teso e misurato tra un indice e l’altro, passante da una costa all’altra dell’America ed in grado di collegare un prima ed un dopo, la bellezza all’orrore, consumato in quel "Per sempre" finale inattendibile, un biglietto di sola andata per la Terra, capace di far scendere il funambolo dalle nuvole, lo spettatore dal sogno, il cinema nella realtà, e tornando a toccare il suolo nudo, appoggiando il passo sull’orma incancellabile di un’amara verità costituita da due punti in uno spazio vuoto, mancanza da attraversare sospesi su una fune .

Dall’introduzione di Paul Auster al Trattato di funambolismo: «Dall’inizio alla fine non pensai un solo istante che potesse cadere. Rischio, paura di morire, catastrofe: tutto ciò non apparteneva allo spettacolo. Philippe aveva assunto il pieno controllo della propria esistenza, sapevo che niente poteva scuotere quella certezza. Il funambolismo non è un’arte della morte, ma un’arte della vita – della vita vissuta al limite del possibile. Ovvero della vita che non si nasconde alla morte, ma la guarda dritta in faccia.»

1 Estratto da Trattato di Funambolismo – Philippe Petit

2 Estratto da Credere nel vuoto – Philippe Petit

3 Estratto da Toccare le nuvole – Philippe petit

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 03/11/2015

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