Zemeckis / The Walk - L'immagine mancante
Quello di Zemeckis all'immaginario collettivo è un dono taumaturgico di indiscutibile necessità e potenza, palingenesi che nasce dal rapporto ontologico tra cinema e città.
La fronte appoggiata alle pareti di freddo acciaio, la camera che ondeggia verso l’alto ad accarezzarne la superficie lucida, finalmente materica. Foto sul giornale, immagine mentale, modellino e infine colossi di acciaio e cemento e vetro, due giganti che si stagliano verso il cielo senza alcuna intenzione di fermarsi, senza timori o riverenze nei confronti dell’immensa volta azzurra.
C’è un momento inevitabile nel percorso di Philippe Petit in cui il sogno deve confrontarsi con la realtà e la sua vertiginosa imponenza, una scena apparentemente di passaggio nell’economia di The Walk che invece segna quello che forse sarà un punto di non ritorno per il cinema americano. Grazie al gesto artistico di Petit e al racconto di questo da parte di Robert Zemeckis, finalmente si può tornare all’autenticità del World Trade Center, alla sua immagine certo ma soprattutto alla sua consistenza fisica, alla durezza di quelle superfici che non sono più ma che la macchina cinema può e deve resuscitare. Non più macerie e devastazione urbana, ma la bellezza algida e splendente delle torri che divennero teatro di un “colpo” artistico più forte della Storia.
Commentando la scena finale di Gangs of New York – l’evoluzione novecentesca dello skyline di Manhattan vista dal cimitero in cui viene seppellito Bill il macellaio – Scorsese giustificò la volontà di non mostrare la scomparsa delle torri affermando che quell’evento non poteva essere imputato ad una scelta dei newyorchesi, che in quanto tali meritavano di poter conservare l’immagine dei grattacieli come parti integranti della loro città.
Tornando oggi a quell’immagine, prodotta ad un solo anno di distanza dall’attentato, troviamo in essa quello che è forse il primo gesto di rottura rispetto al tabù che ha da subito circondato l’iconografia delle torri gemelle, scomparse nelle varie sedi di montaggio da spot, trailer, sequenze televisive e cinematografiche. Come se la regia imposta al mondo dagli attentatori attraverso lo scarto temporale dei due aerei – differita che di fatto ha permesso che tutti gli occhi elettronici del mondo fossero puntati sul secondo impatto – si fosse in qualche modo sovrapposta ad ogni altra rappresentazione possibile, un’invasione iconica resa ancora più pervasiva dalla vicinanza delle immagini dell’attentato ai canoni spettacolari del blockbuster hollywoodiano.
Di conseguenza non sorprende come il gesto di Scorsese sia rimasto per anni senza seguito, mentre attorno al World Trade Center Hollywood operava in due direzioni: evitare ogni immagine delle torri e assieme esercitare un costante riferimento al loro crollo attraverso una reiterata poetica della devastazione urbana.
Assumendo adesso una prospettiva più generale, quello del cinema americano per la città è sempre stato un rapporto di amore-odio, una condizione aporetica che trova però la sua origine nel legame ontologico che c’è tra la nascita del cinematografo e lo sviluppo della metropoli.
Fin dalle origini infatti il cinema nasce all’interno di un contesto urbano, e con esso cresce fino a diventarne il principale veicolo di espressione. Cinema e città si fondono nelle prassi produttive del mezzo, nella fruizione da parte del pubblico, nella necessità di raccontare la scatenata evoluzione dell’urbanesimo (soprattutto americano) attraverso le immagini. La città modella il cinema come questi fa con la città, non limitandosi ad una mera rappresentazione bensì operando una ri-creazione, una nuova figurazione che ha un impatto diretto sui cittadini che la abitano e ancor di più su quelli che solo la immaginano.
Di conseguenza seguire l’evoluzione della rappresentazione urbana nel cinema americano può diventare una via di accesso privilegiata per capire e ricostruire molti dei cambiamenti occorsi ad Hollywood e dintorni. Ovviamente sarebbe impossibile (e anche un po’ inutile) ricostruire qui un secolo di evoluzione dell’immagine della città, tuttavia vale la pena soffermarsi sul fondamentale cambiamento di rotta che investe il cinema americano sul finire degli anni 80, momento in cui la metropoli urbana cessa di apparire come una terra criminale sede di minacce alla vita della middle class, per diventare piuttosto patrimonio riconquistato che va difeso dai tanti pericoli provenienti dall’esterno.
Con un’inquietante anticipo di temi e rappresentazioni che esploderanno poi dopo l’11 settembre, dal punto di vista urbano è quello degli anni 90 il primo cinema della minaccia, dell’attacco straniero che può assumere forma naturale e terroristica. Da Deep Impact a Die Hard – Duri a morire, da Indipendence Day ad Attacco al potere.
Questa tendenza è dovuta al nuovo fenomeno urbanistico della gentrification (riconquista da parte dei nuovi ceti ricchi figli dell’età reaganiana di quelle zone urbane vittime di degrado e criminalità) ma troverà una sua imprevedibile e definitiva cassa di risonanza negli attentati del World Trade Center, dopo i quali la minaccia diventa autentica distruzione urbana, estetica della maceria che domina ancora oggi il blockbuster hollywoodiano con una carica poetica ormai esaurita nella ripetizione.
A fronte di queste considerazioni torniamo allora a The Walk, film che, si dirà, non può certo cambiare da solo l’economia narrativa e visiva del blockbuster a venire. Tuttavia, nonostante i cinecomics e le loro annesse distruzioni metropolitane, in quanto astrazione sublimata in immaginario collettivo e quindi patrimonio, volente o nolente, condiviso, il cinema americano trova nel film di Zemeckis un dono taumaturgico di indiscutibile necessità e potenza, uno scarto che nasce dall’affermazione dell’arte sul principio di realtà e trova in questa legge la forza per superare iconograficamente, e quindi collettivamente, il trauma del terrorismo. Hollywood allora potrà pure continuare a riproporre una città vittima di distruzione e ricostruzione perenne, almeno fino a quando il ciclo supereroistico frutterà al botteghino, ma da oggi le torri e la loro nuova, palingenetica, bellezza, tornano a fare parte del patrimonio visivo del cinema americano, a conti fatti libero di tornare a quell’immagine mancante vittima della Storia grazie al sentiero tracciato da Petit/Zemeckis da un capo all’altro delle torri gemelle. L’arte come filo capace di ricucine e riunire i lembi non solo della ferita, ma della stessa capacità di auto-rappresentazione del cinema, con buona probabilità la più grande e mesmerizzante qualità di tutta la cultura americana.