The Deuce - La via del porno
O della disneyficazione dei luoghi e dei corpi della contemporaneità secondo David Simon.
La spettrale versione di Blondie della traditional song di fine Ottocento The Sidewalks of New York, che fa da straziante commento musicale alla passeggiata in flash-forward, lungo la Deuce del maggio 2019, di un Vincent Martino invecchiato e appesantito dallo scorrere del tempo, funge da epilogo perfetto per quella magnifica tragedia in tre atti che è The Deuce – La via del porno (The Deuce, 2017-2019, HBO), con la quale David Simon e George Pelecanos tornano a raccontare da par loro l’inarrestabile dominio del Capitale sui corpi e sui luoghi della contemporaneità.
Prima dell’epilogo ambientato nel 2019, sorta di Spoon River del terzo millennio col personaggio interpretato da James Franco che ritrova uno dopo l’altro tutti coloro che il tempo gli ha portato via, le tre stagioni della serie coprono un arco temporale che inizia nel 1971, prosegue nel 1978 e culmina nel 1985 della splendida annata conclusiva. I due scrittori e showrunners utilizzano la lente interpretativa del sesso e della pornografia per costruire, attraverso questo quindicennio decisivo, un agghiacciante apologo sulle trasformazioni economico-urbanistiche e socio-culturali di una tra le aree urbane più fortemente simboliche dell’intera civiltà occidentale: la Deuce appunto, cioè quel tratto della 42esima strada nei pressi di Times Square, nel cuore di Manhattan, un autentico boulevard of broken dreams oggi affollatissimo luogo-chiave del neo-turismo di massa globalizzato dopo che, fino a metà anni Ottanta del Novecento, aveva invece definito la propria malfamata ma vitalissima identità intorno a una brulicante umanità fatta di prostitute e protettori, baristi e artisti, poliziotti più o meno corrotti e mafiosi non sempre di primo livello, punk e filosofi, sottoproletari alla ricerca di un sogno americano sfuggente per definizione.
La stagione inaugurale della serie porta lo spettatore direttamente in strada, sui marciapiedi della Deuce d’inizio anni Settanta dominata dai papponi afroamericani e piena di ragazze che, per sopravvivere o tentare una svolta, provano a lasciare i marciapiedi per avvicinarsi alla nascente e ancora artigianale industria del porno. Nel 1978 della seconda annata, invece, il cinema per adulti vive il suo boom, si trasforma in fenomeno economico e di costume e anche tra le ragazze della Deuce c’è chi diventa una star, come la fragile e tormentata Lori Madison interpretata dalla bravissima Emily Meade, oppure la ben più matura e sicura di sé Candy-Eileen (Maggie Gyllenhaal, forse al ruolo della vita), che da attrice scopre una vocazione per la regia sempre più totalizzante.
La stagione finale, quindi, si apre a Capodanno del 1985, con Vincent e la sua compagna, la volitiva Abby Parker di Margarita Levieva (terzo vertice del triangolo di protagoniste femminili Candy-Abby-Lori), ormai diventati punti di riferimento sempre più centrali per l’intera comunità della Deuce, sia nel loro storico bar, l’Hi-Hat, sia negli altri locali gestiti per conto della mafia, con la quale fa affari anche il gemello di Vincent, lo scapestrato e immaturo Frankie Martino, anch’egli interpretato da un virtuosistico James Franco, cimentatosi con buoni esiti anche alla regia in quattro episodi. Intorno a loro ruota una micro-comunità viva e credibile, che si muove coerentemente con quella che è la visione corale della serialità di David Simon, capace peraltro, anche in quest’occasione come già nelle opere passate (dall’epocale The Wire fino alla springsteeniana Show Me a Hero), d’immergersi con efficacia nei gangli delle istituzioni statunitensi per raccontarne dal di dentro il funzionamento e svelarne cinismo e ipocrisia, incarnati in The Deuce dal personaggio di Gene Goldman (l’ottimo Luke Kirby), il funzionario comunale che per conto del sindaco Ed Koch si occupa della riqualificazione della 42nd Street.
È la gentrificazione, bellezza! E tu non ci puoi far niente! Sì, perché The Deuce – soprattutto nella sua stagione conclusiva – dice la parola forse definitiva sul mondo (in questo caso, il cuore e l’anima di New York) trasformato in Mega-Disneyland globale e globalizzata, costi quel che costi, anche calpestando corpi umani sempre più ridotti a merce e marchiati a fuoco con le lettere sgargianti e terribili delle insegne pubblicitarie, capaci di annullare la poesia oscura della notte in un eterno giorno illuminato al neon; e, addirittura, giocando talmente sporco da utilizzare strumentalmente l’alibi della presunta emergenza sanitaria legata all’insorgere dell’Aids per riconvertire a metà anni Ottanta la Deuce e Times Square all’edilizia commerciale di lusso, con l’obiettivo di trasformarle in una sorta di parco divertimenti per turisti compulsivi.
La consueta raffinatezza della scrittura audiovisiva di Simon e Pelecanos (e di Richard Price, Megan Abbott, Lisa Lutz e dei tanti altri narratori di rango coinvolti nello story department; ma anche di registi dotati ed empatici come Alex Hall, Roxann Dawson, Michelle MacLaren, Tanya Hamilton, Susanna White) sa rendere indimenticabili i tanti personaggi che attraversano le tre stagioni della serie, soprattutto – va evidenziato – quelli femminili, ai quali spesso è affidato il punto di vista di un racconto che, come in poche altre occasioni nella serialità contemporanea, riesce a bilanciare tra loro l’approfondimento psicologico dei caratteri, l’intreccio tra micro-storie intime e quotidiane, l’evoluzione del macro-contesto storico-sociale e la contaminazione tra generi narrativi “forti” come il crime-noir, il melò, il dramma d’impegno civile e la ricostruzione d’epoca.
Al tempo stesso, come sempre nelle serie di Simon, The Deuce può essere letta come uno straordinario viaggio nella popular music a stelle e strisce, compiutamente inserita nei meccanismi della narrazione e utilizzata per accompagnare i personaggi e sottolineare i mutamenti del mondo nel quale essi agiscono. Così, fin dai titoli di testa, l’itinerario d’autore procede da Curtis Mayfield (prima stagione) a Elvis Costello (la seconda) fino all’inevitabile Blondie di Dreaming, opening song della terza stagione, amaramente collegata al requiem finale di The Sidewalks of New York non a caso reinterpretata per l’occasione proprio da Debbie Harry e, sui titoli di coda, alla sontuosa Assume the Position di Lafayette Gilchrist, costante sonora delle tre stagioni capace di rimandare direttamente a The Wire e di caricare, ancora una volta, l’America di Simon e Pelecanos di un mood inquietante e minaccioso.