Tales From The Loop
Pastorali americane con automa: il futuro è già passato, non ci resta che ricordare. Passatista, epica e umanista, la serie sci-fi di Prime Video è forse più complessa di quanto essa stessa non creda.
Se in televisione spetta a ideatori e showrunner farsi carico del ruolo di demiurghi storicamente affidato ai registi, allora Tales From The Loop di autori ne ha almeno due. Ed è facile, per una volta, stabilire dove finisca l'opera ispiratrice (Simon Stålenhag) e inizi quella narrativa (Nathaniel Halpern).
L'artista svedese è il nome di copertina, ma a differenza degli altri grandi designer del cinema (da Syd Mead a H.R. Giger) il suo coinvolgimento nel prodotto finale non è diretto. Dai suoi celebri quadri digitali (incontri ucronici tra tecnologia futurista e società rurale dall'estetica inconfondibile) prendono vita tante piccole, frammentarie narrative più o meno apocrife: racconti, giochi di ruolo e ora questa prima serie Amazon Prime Video. Un lavoro su commissione posto sulle spalle dello scrittore televisivo Halpern; a lui il gravoso compito di improvvisare, riempire i buchi, articolare partendo da una matrice genetica elementare come una serie di dipinti un universo estremamente personale.
L'opera di Stålenhag si fa tv attraverso una serie di mediazioni e compromessi. Anzitutto, quello geografico e sociale: al posto delle campagne svedesi dell'infanzia dell'autore, in Tales From The Loop il panorama (perfettamente sovrapponibile) è quello del Midwest americano; e come era tutto sommato facile prevedere, la chiave scelta per traslare gli evocativi scorci in un format televisivo diventa quella delle rêverie anni '80, della provincia e delle fantastiche avventure dell'infanzia. Ma come la robotica in stato di abbandono nell'arte di Stålenhag, tutto appare dimesso, crepuscolare. Come è crepuscolare la grande saga familiare dei Willard, famiglia blue collar tenuta insieme da segreti e rimpianti, i cui adulti lavorano alla manutenzione del Loop: un fantastico acceleratore di particelle custodito nel sottosuolo e che, programmaticamente, “rende le cose possibili”, intrecciando i propri effetti alle vite della comunità.
La maniera in cui Halpern ha scelto di operare sui lavori di Stålenhag rende inevitabile confrontarsi con il grande dibattito di questi anni in merito agli sviluppi presenti della letteratura fantastica. Senza ricapitolare per l'ennesima volta le principali posizioni teoriche a riguardo (Simon Reynolds, Mark Fisher, retromania e hauntologia, autori e terminologia ormai giustamente parte di un bagaglio culturale condiviso), è chiaro che anche il Loop Amazon, come mille altri prodotti coetanei, alle capacità speculative dello sci-fi è interessato meno di zero; non è lo slancio verso il futuro ad animarlo quanto, al contrario, una dipendenza simbiotico-parassitaria dal passato, e dal culto pornografico per la nostalgia. Non è un caso che, tra le mille fantasmagorie ucroniche portate in scena, il grande assente sia nientemeno che Internet: la tecnologia di Halpern e Stålenhag non è digitale né contemporanea, non ha operato la sua storica fusione con il privato, non è strumento comunicativo o di controllo. È piuttosto analogica, meccanica, addirittura magica.
Pastorali dove la tecnologia non solo è arrivata da un pezzo, ma è anzi già in dismissione, integrata e abbandonata con fastidio, ennesima “grande opera” lasciata a metà da qualche inopportuno taglio di fondi pubblici: spingendosi un po' oltre il testo, il retrofuturismo di Stålenhag può in fondo essere letto proprio come una implicita critica alla povertà immaginativa di questa end of history postmodernista. Nella serie Amazon, i luoghi dell'artista diventano il terreno del meraviglioso bambino, dell'elegia bucolica, un po' Norman Rockwell un po' Pascoli. Il “futuro” è un termine senza significato: è un fondale misterioso, muto, fantasma di possibilità negate; ridotto a panorama eighties perenne, nuovo West leggendario in cui perdere e ritrovare se stessi, con il mondo dello spettatore ha ormai lo stesso legame che hanno i libri di fiabe con la quotidianità dei bambini che li leggono.
Eppure, accusare Tales From the Loop di tradire le proprie potenzialità sci-fi sarebbe fuori strada rispetto alle effettive ambizioni della serie. Scomponendo la crasi che definisce il genere, si può dire che gli otto racconti di Halpern siano sicuramente “fanta”; ma la “scienza”, con tutto ciò che comporterebbe porsi in maniera critica se non almeno dialettica nei suoi confronti (come fanno altri contemporanei, magari non raffinatissimi ma senz'altro ambiziosi, come Black Mirror o Westworld), è completamente esclusa dall'equazione. I suoi MacGuffin (meteoriti, reliquie, materiali inorganici) sono artefatti magici, lampade di Aladino o sfere del drago, sepolte nella foresta in attesa di sottoporci a difficili prove morali. È così che la sua necrofilia trova quasi un senso: non è una serie sulla società del futuro, quanto sul passato, sul tempo interiore apparentemente sempre uguale dell'infanzia e dell'adolescenza. Un mondo in cui pensare al di là diventa non solo impossibile, ma proprio non-desiderabile.
Nei suoi formati da tv scandinava traslata su suolo americano, con i suoi tempi e i suoi silenzi, i campi lunghi in magic hour e gli alberi fruscianti, Loop gioca con il familiare. Per ognuno dei suoi otto racconti, Halpern prende a prestito una serie di topoi dello sci-fi più classico, con il moderno afflato della rielaborazione: si va dal viaggio nel tempo stile La Jetée alle leggi della robotica al body swap e la paura del diverso. Il format antologico permette ai registi-superstar di muoversi su episodi cuciti su misura; il migliore è prevedibilmente Ti West, bello e terribile l'episodio della coreana Son Yong Kin, bravissima l'ormai impeccabile Jodie Foster a tirare le somme nell'ottimo finale. Andrew Stanton va di pilota automatico con nonni e bambini (ma ha Jonathan Pryce a fargli il lavoro sporco strappalacrime) mentre la frigidità sotto zero del complesso penalizza i due atroci episodi a tema amoroso.
Ma la tentacolare opera di Halpern ha un'anima umanista che la grave percentuale di episodi mediocri porterebbe a ignorare. Arrivato in fondo alla sua piccola epopea familiare, Tales From the Loop si rivela, col cuore in mano, come un piccolo apologo sui legami umani, sul tempo, sulle ramificazioni e le correlazioni che intercorrono e uniscono le generazioni di una comunità alla fine della storia. Persa in un tempo mitico in cui nulla accade, la tecno-magia di Stålenhag diventa l'ultimo testimone in grado di connettere vite lontane e distrutte. La somma delle parti moltiplica i suoi frammenti in un'opera più vasta e complessa, e vista da lontano trova (incredibile!) una voce originale.