Quella di Kieślowski è stata una grande occasione. Non capita spesso, nella vita di un artista, di poter esprimersi con il massimo della libertà e in un colpo solo su grandi questioni universali come Dio, la religione, il sesso o la famiglia. Una condizione privilegiata che, probabilmente, fu la vera motivazione che spinse il maestro polacco a teorizzare e poi a scrivere e dirigere Il decalogo. Quale altro irripetibile pretesto per urlare con tutto l’impeto e la disperazione possibili che la pena di morte, ad esempio, è il più grande abominio della storia dell’uomo?
Si intitola Non uccidere, questo episodio, ma Kieślowski e lo sceneggiatore Piesiewicz provano compassione per l’omicidio di strada, quello tra comuni mortali. Come vedremo, un fatto tragico e agghiacciante, sì, ma naturale. Il vero peccato è l’omicidio di Stato.
Un apprendista avvocato sta sostenendo l’esame di abilitazione. “Il carcere deve rieducare, non punire gratuitamente. La sola ragione del divieto è quella di essere un utopico deterrente: nessuna legge ha mai dissuaso ladri e assassini. Servirebbe un cambio di paradigma, ovvero impostare il sistema penale sulla prevenzione del delitto, invece che sugli anni di reclusione.”
Montaggio alternato. Un ragazzo vestito da punk vaga con fare animalesco per le vie di Varsavia. Lancia un sasso da un cavalcavia, provocando sotto di sé un incidente automobilistico; non ha rispetto per gli anziani, trangugia bignè come una belva affamata e muore dalla voglia di strangolare qualcuno. Intanto, altrove, pur essendo definito dalla commissione un “provocatore”, un uomo diventa a tutti gli effetti un avvocato.
Jacek, il ragazzo, alla fine ruberà un taxi assassinando barbaramente il suo proprietario. “Oh mio dio!”, esclamerà incredulo, realizzando che sta effettivamente perpetrando un omicidio; tuttavia, mentre la macchina da presa ci mostra una soggettiva della vittima, finirà il tassista con una grossa pietra, come fece Caino con Abele. Sarà proprio Piotr, l’avvocato sopracitato, a difenderlo a processo, ma senza riuscire a salvarlo dalla forca.
La natura umana è più forte di Dio, dell’idea di Dio, dello Stato e delle punizioni che questi mettono in atto. Jacek è spinto da una vera e propria pulsione di morte. Il suo girovagare è un loop apatico e febbrile, un mix di depressione, aggressività e infantilismo; sembra cogliere l’ispirazione del momento quando entra in una pasticceria, scherza con delle bambine, ruba un coltello, sputa dove ha appena mangiato. Cos’è rimasto, di realmente vivo, in questo ragazzo? Le sue azioni scorrono come un fiume in piena, con la stessa casualità imperfetta.
L’esecuzione capitale, invece, è dettata da tempi chirurgici, calcolati, ossequiosamente rituali. Tutto è scientifico, anaffettivo, meccanico. E non per questo meno mostruoso e brutale. Nessuna pietà, nessun ultimo desiderio, se non il sollievo mortificante di una sigaretta. Il condannato si oppone, scalcia, urla, e allora lo prendono di peso, lo bendano e lo impiccano in un batter d’occhio. Chi è il vero colpevole? L’apparato statale e burocratico, un organismo che ormai vive di vita propria plasmando la coscienza dei propri dipendenti, o un povero disgraziato traumatizzato?
Già, perché durante il colloquio/confessione con il suo avvocato, in cella, prima della fine, Jacek gli confiderà un lutto gravissimo, la sua sorellina di dodici anni, morta proprio a causa sua. Un senso di colpa talmente insuperabile da averlo trasformato in un teppista senza speranza. Siamo quindi di fronte, per l’ennesima volta, a un dualismo dai contorni ipertrofici: da una parte l’incandescente vastità delle vicende umane, capaci di trasformare irrimediabilmente gli uomini, dall’altra l’imperturbabilità amorale e indifferente dello Stato, che punisce i suoi figli senza guardarli negli occhi.
Nella quinta parte de Il Decalogo, schiacciante e decisiva come l’arma del delitto del protagonista, Kieślowski si cala anima e corpo, più degli altri episodi, nel proprio personaggio: attraverso l’avvocato, urla tutto il disgusto possibile nei confronti di un’aberrazione collettiva talmente sovrumana da sfociare in una furia divina. “È rivoltante! È intollerabile!”, griderà Piotr fino allo sfinimento dopo aver assistito all’esecuzione, solo e al crepuscolo, nella sua auto, disperso nelle campagne fuori Varsavia e tradito da una giustizia alla quale ha irrimediabilmente prestato giuramento.