Being the Ricardos
Forse l’unico biopic possibile nell’era della post-verità, ma anche un film in cui Sorkin, nonostante incertezze e ambizioni che scricchiolano, si pone senza difese di fronte lo spettatore.
Mark Zuckerberg quella sera non poteva bere birra. Ne è convinto Aaron Sorkin, che spesso ricorda un vecchio litigio che ebbe con David Fincher ai tempi di The Social Network. Tutto parte dalla notte in cui Zuckerberg programma la versione embrionale di Facebook. È un momento centrale per comprendere l’approccio di Sorkin alla materia del racconto. Perché tutto ciò che sta accadendo in scena è vero, basato sugli stessi post del blog in cui Zuckerberg, quella notte, registrerà i suoi progressi, tutto tranne i dettagli legati alla sua ubriacatura. Perché Zuckerberg quella notte si sbronzò di birra, una bevanda, però, troppo ordinaria, poco “cinematografica”, così Sorkin gli fa bere un Martini. È solo una licenza poetica, certo, eppure quel Martini è anche un sintomo di un’ambiguità di fondo che modella l’immaginario di Sorkin fin dalle origini e che proprio Being The Ricardos, suo terzo film da regista oltreché da sceneggiatore, porta allo scoperto. In primo luogo perché questo strano meta-biopic politico, che racconta la settimana più difficile di Lucille Ball e Desi Amaz, le star dell’amatissima sitcom I Love Lucy, la cui vita apparentemente perfetta rischia di andare in mille pezzi quando Lucille viene sospettata di essere comunista, è il definitivo svelamento dell’utopia sorkiniana. In prospettiva, Sorkin è infatti un autore post-classico, tra Hawks e Capra, il cui mondo è però sempre più sull’orlo dell’abisso, artefatto, popolato da personaggi che parlano quasi senza pensare, troppo luminoso per risultare credibile. I suoi spazi, nel tempo sono stati in effetti percorsi da una sotterranea tensione distruttiva, quasi percepissero di essere fuori posto e volessero lasciar risaltare il loro debito con il Reale demistificando la loro natura profonda, da Studio 60, ambientato nel dietro le quinte di un programma che pare evidentemente il Saturday Night Live, arrivando fino alla sperimentazione di The Newsroom, in cui ogni episodio prende le mosse da un vero fatto di cronaca. Being The Ricardos non può dunque che proseguire a ragionare su questa frattura. Ma se fosse troppo tardi?
Basta il prologo a rendersi conto che, forse, la catastrofe è già in atto. Being The Ricardos si sviluppa infatti a partire dalla cornice offerta da un documentario sulla vita di Lucille e Desi. Ce lo conferma proprio la prima sequenza, in cui i due sceneggiatori della serie e il suo showrunner, ormai anziani, ricostruiscono quella settimana. Ma è tutto falso, i tre intervistati sono tre attori, malgrado i loro sottopancia provino a depistarci sulla loro identità. È così, con un’azione folle, incontrollata, che l’immaginario di Aaron Sorkin detona.
Being The Ricardos è senz’altro il film più teorico dello sceneggiatore americano, il quale, forse per la prima volta, si confronta con le strutture del suo sistema narrativo mentre vanno in mille pezzi, rimanendo ben saldo nell’occhio del ciclone. È un film paradossale, affascinante, centrato, nelle sue parentesi di maggiore non senso, in tutti quei momenti che lavorano sul cortocircuito tra realtà, verità e menzogna e organizza una sorta di variante ribelle del biopic, che piega il tempo, inventa da zero una settimana che i veri Lucille e Desi non hanno vissuto, per raccontare fatti distanti anni, racconta la gravidanza mediatica della protagonista, incinta nella vita ma anche nello show, ed esalta i tratti più artefatti dell’identità di Lucille.
Being The Ricardos è forse l’unico biopic possibile nel cinema delle piattaforme ma soprattutto in un momento in cui il reale è sempre più inscindibile dal digitale, un film modellato dall’algoritmo, sostanziato da dati in movimento costante, in cui la verità non esiste e che esplode in vertiginosi momenti di autocoscienza, tra una Nicole Kidman mai così simile ad un deepfake di Lucille Ball, come è già stato scritto, e una protagonista che, a partire dalla lettura degli script degli episodi, letteralmente si “immerge” nel set della sitcom per modificarne ogni minimo dettaglio. Ragiona con straordinaria lucidità Sorkin, che si lega a ciò che Fincher (ancora lui…) compie con il suo Mank, altro film fondamentale che guardando al passato riflette, in parte, sulla crisi del biopic nello spazio digitale. Eppure tra le due opere intercorre una differenza fondamentale. Perché Fincher guarda un intero genere dall’esterno mentre Sorkin – che non ha un immaginario visivo solido, non ha un’idea di cinema da riconfigurare dopo la catastrofe e attraverso cui mediare il trauma, e ha piuttosto valori, idee, personaggi, parole, elementi immateriali, troppo labili, soprattutto troppo personali, per reggere un film di tale portata concettuale – è quasi annichilito, traumatizzato.
Forse è per questo che si chiude sempre più in sé stesso, e Being The Ricardos diventa un film a due velocità, tanto grintoso, avvincente, impietoso quando rimane negli spazi chiusi del set, quanto didascalico nel momento in cui sposta le sue riflessioni nel quotidiano di Lucille Ball e Desi Amaz. Ha paura di ciò che vede, Sorkin, della distruzione che lo circonda, e per questo, spesso, distoglie lo sguardo, perde il ritmo, cede alle sue stesse trappole, rimane sedotto dalla straordinaria presenza scenica di Javier Bardem o prova a utilizzare la “sua” Lucille Ball per parlare tanto di post-femminismo quanto della dignità dell’intrattenimento che nasce in tv. Sembrano riflessioni che vorrebbero espandere lo spettro del film oltre il suo centro, in realtà non sono altro che tentativi disperati di riemergere dall’abisso.
Ma il vuoto, alla fine ha la meglio ed è alla base di un epilogo straordinariamente maturo, “capriano” nella forma eppure sghembo, artefatto. Magari le immagini, alla fine, hanno preso il sopravvento, oppure Aaron Sorkin ha trovato la maturità per comprendere quanto l’unico modo per raccontare una storia vera, oggi, sia attraverso il filtro Brechtiano dello straniamento. Sollecitato dalla cornice offerta dal cinema delle piattaforme Sorkin si spoglia di tutte le sue sovrastrutture e guarda negli occhi il suo stesso immaginario. Manca il grande balzo, quello compiuto da Scott o da Spielberg, che l’avrebbe portato a guardare la fine del suo cinema senza averne paura, ma c’è un primo piccolo ma promettente passo, c’è il desiderio di mostrarsi senza difese, di movimentare, vivificare, un immaginario che finora è rimasto incastonato nell’ambra.