Castle Rock
L'universo narrativo di Stephen King diventa terreno fertile per la serie originale prodotta da J.J. Abrams per Hulu, tra trovate suggestive e passi falsi.
In principio è stato il prodotto non kinghiano più kinghiano di tutti, Stranger Things, con le sue atmosfere e il suo sapiente citazionismo, ad aprire le porte a un nuovo modo di concepire e portare sullo schermo (anche) l'opera del Re del Brivido. Poi ci hanno pensato prodotti apparentemente innocui come Il gioco di Gerald e, in minor misura, 1922 (ancora una volta produzioni Netflix) a confermare definitivamente che quella tendenza poteva diventare anche esplicita, dettando un nuovo corso per gli adattamenti cinematografici e televisivi a venire.
È tra queste due esperienze – l'omaggio evocativo e la trasposizione fedele – che si colloca un prodotto rivoluzionario (almeno negli intenti iniziali) come Castle Rock, serie prodotta da J.J. Abrams e dallo stesso Stephen King e ambientata proprio nell'iconico universo narrativo di quest'ultimo. Perché, nel nuovo titolo di punta della piattaforma statunitense di streaming Hulu, c'è proprio quel mondo fatto di luoghi, atmosfere e orrori familiari tipico dell'autore del Maine, declinato, però, in una storia originale popolata da nuovi volti, nuove situazioni, nuovi misteri.
È così che, a luoghi e personaggi entrati oramai a pieno titolo nell'immaginario collettivo (la stessa fittizia cittadina di Castle Rock e tutti i rimandi, letterari e cinematografici, che si porta appresso), si affianca una vicenda inedita fatta di ragazzini scomparsi, detenuti misteriosi e altre dimensioni. Non è certo un caso, d'altronde, che, nei suoi deliri temporali mano a mano sempre più ingombranti, la serie cominci proprio in quel 1991 in cui era ambientato Cose preziose, il romanzo che doveva essere, almeno fino ad ora, “l'ultima storia di Castle Rock”.
È proprio da qui, infatti, che il mondo di King (ri)prende vita sullo schermo, un ritorno a casa assicurato soprattutto dallo sguardo che la serie si porta dietro e dalle infinite possibilità che il suo universo fantastico parrebbe garantirle. Sì perché il condizionale è d'obbligo in una storia che, ben presto – vuoi per i suoi misteri sempre più ambigui e intricati, vuoi per l'apporto di un produttore che proprio sui misteri, la suspense e il rompicapo labirintico e, in definitiva, confusionario ha costruito, da Lost in poi, la sua carriera – accanto ai suoi innegabili pregi, comincia, episodio dopo episodio, a mostrare i suoi difetti, tra dubbi, cali di tensione e confusionarie teorie multidimensionali. E se, da una parte, questo non basta a negare a Castle Rock l'indubbio fascino di un'operazione filologica capace di omaggi e strizzate d'occhio a un intero mondo di appassionati (dai riferimenti diretti a opere precedenti all'uso di attori “kinghiani” come Sissy Spacek e Bill Skasgard), dall'altra porta con sé il sentore dell'occasione mancata, del tentativo, almeno in parte fallito, di fare della serie un vero e proprio nuovo tassello nell'immenso corpus dell'autore di Carrie e It.
Tra Lost e Twin Peaks, tra riferimenti a Cujo, La zona morta e Shining, Castle Rock resta un oggetto strano, che non attrae né respinge, capace di costruire momenti di grande intensità e lirismo (l'episodio The Queen, dove il disvelamento del passato passa attraverso il caos percettivo dell'Alzheimer) ma anche di incappare in cadute di stile tutt'altro che felici (il ritmo altalenante e lo sviluppo incerto e poco approfondito di alcuni episodi di raccordo). Il risultato complessivo è un passo falso, certo, ma comunque significativo e necessario per il futuro di un filone comunque mai così attento (e rispettoso) nei confronti dell'universo letterario da cui è scaturito.