Devs
Il primo esperimento seriale di Alex Garland affronta quanto già sondato nel suo cinema, ma con un sistema di ingranaggi che intreccia suggestioni science-fiction, teologia e discorso teorico sull'immagine in un risultato persino più convincente.
Degli elementi e dei temi cari ad Alex Garland abbiamo già acquisito una certa dimestichezza. C’è la science-fiction contestualizzata in una geografia più terrestre che spaziale (almeno nei film in cui Garland ha curato la regia, non vi sono né cosmonauti né astronavi). C’è il protagonismo di una figura femminile. E c’è il suo inserimento in uno spettro di soluzioni che contaminano la componente tecnologica – più inclusivamente, scientifica – con allusioni all’ambito della religione e della teleologia. Ritroviamo tutto in Devs, prodotta da Hulu e debutto seriale per l’autore dopo le fortune dei film Ex Machina e Annientamento. Allora, il cambiamento principale, ovviamente, sta anzitutto in questo: il formato della serialità breve concede una iper-estensione, e insieme un rallentamento, nella disposizione e nella trattazione di questi elementi. Il terreno è fertile, e la risultante assolutamente convincente.
Anzitutto, il mondo inquadrato da Garland non è tanto futuristico, quanto assolutamente futuribile. La sua San Francisco sarebbe copia spiccicata della nostra, se non fosse per un dettaglio. Dislocata nei boschi appena fuori dalla città si trova la complessa sede di Amaya, un’industria ipertecnologica così avanzata da fare piazza pulita della competizione, con tanto di statua-simbolo gigante che raffigura una bambina dal volto inquietante. Nel più misterioso e impenetrabile dei suoi edifici, Devs, appunto, il presidente Forest (Nick Offerman) e i suoi scienziati lavorano su un super-computer che elabora algoritmi predittivi così complessi da permettere la ricostruzione per immagini di tutta la storia passata dell’uomo e, in parte, del suo futuro. Tra i pochissimi fortunati a poter accedere e lavorare per Devs, c’è la spia russa Sergei (Karl Glusman), la quale tuttavia viene subito scovata dallo stesso Forest, proprio grazie ai meccanismi di visualizzazione predittiva del super computer, e quindi fatta assassinare. La compagna del ragazzo, Lily Chan (Sonoya Mizuno), viene avvertita del suo suicidio, inscenato abilmente dall’azienda modificando ad hoc le riprese delle videocamere di sorveglianza. Scoperta l’inautenticità delle immagini e la ragione dell’omicidio, Lily si ritrova coinvolta in un complesso di dinamiche che la vedono protagonista inconsapevole e indesiderabile dell’intero determinismo macro-sistemico dell’universo.
Per quanto suoni apocalittico e spropositato pure nel raffronto col precedente Annientamento, il trattamento della materia procede in una direzione contraria alle aspettative, volta a silenziare più che a urlare, a circoscrivere negli spazi domestici e nell’isolamento elegante e ultra-minimalista di Devs più che a squadernare interventi su scala planetaria. La stessa prospettiva di un’evoluzione della trama in chiave spionistica, di cui il personaggio di Sergei sembra l’iniziatore, viene fatta tacere per tradursi in una sorta di MacGuffin che catalizza le attenzioni su Lily, disorientata e fuori rotta, ricondotta sistematicamente all’ordine da Forest e da Katie (Alison Pill), sua vice e amante. Il mantra del determinismo scientifico ha un vero contrappunto soltanto nelle teorizzazioni sul multiverso e sul libero arbitrio, delle quali Lily assume la funzione di vero e proprio dato empirico.
L’irrigidimento del carattere computazionale che governa ogni elemento dell’universo di Devs, secondo la sola dialettica di causa-effetto, si riflette nell’impalcatura della serie, tanto in una struttura episodica che non apre mai all’esasperazione di continui punti di domanda (vedi Westworld), quanto in una pulizia visiva e della scrittura che introietta lo spettatore nelle sue logiche, fuori da ogni sgomento e da espressioni di incredulità. Ecco che, allora, in questo lento movimento iper-estensivo di ingranaggi oliati – come quelli dorati e ramati del supercomputer di Devs – le frasi a effetto di Forest sulla predeterminazione di ogni elemento dell’universo, la continua ricombinazione particellare dei dati acquisiti per ricreare su maxi-schermo la crocifissione di Cristo, l’estinzione dei dinosauri, la morte al rogo di Giovanna d’Arco e le immagini della piccola figlia di Forest, morta in un incidente, che soffia bolle di sapone, tutto concorre a investire Forest di funzione messianica, e a ridefinire la funzione della luminosa gabbia dorata di Devs a dispositivo sacrale e divino che attraversa l’intero spazio-tempo. Invero, svela Forest, la ‘v’ è romana: Devs è in realtà Deus. Il richiamo al dittico con Ex Machina è servito. La futuribilità e il parossismo della tecnologia avvicinano l’uomo al divino; quindi, come accade per il dispositivo greco, alla risolvibilità di ogni macchinazione. Se non fosse per quell’ultima variabile, esile come il corpo di Lily e tuttavia capace di produrre una falla, una frattura nell’assetto titanico delle maglie del tempo, con una singola scelta che rivela un gesto autentico di libero arbitrio o, meno sentimentalmente, di appartenenza a un’altra linea del multiverso (e in tal senso, molto vicino alla strada intrapresa nell’ultima stagione dalla serie tedesca Dark).
Basterebbe soltanto questo per dare evidenza della forza di Devs, pure in considerazione di un finale appena sottotono, in cui si sostituisce la problematicità di certe teorie messe in tavola con una risoluzione lenitiva forse non del tutto in linea con la restante impalcatura seriale. E tuttavia qualcos’altro potrebbe saltare all’occhio; la lettura di un possibile sottotesto che rimanda al dispositivo di visione, al cinema in senso ampio. Perché la continua elaborazione a computer nelle stanze segrete di Devs si traduce in immagini del passato e del futuro. E tanto più si riavvolge il nastro e con l’elaborazione dei dati si dilata spazialmente l’inquadratura all’interno dello schermo, persino a inquadrare in campo totale il pianeta terra all’origine della sua formazione, quanto più quello schermo produce un quadro completo, di continui riquadri dentro riquadri. La vista degli uomini che disegnano sulle pareti delle caverne in una notte di cinquemila anni addietro, come anche il passato della piccola Amaya che soffia bolle di sapone, è soltanto una ricostruzione visuale, soltanto un bel film; dice Lily. Ma in ultimo, la vera risultante di quell’elevamento a potenza dell’evoluzione tecnologica e delle mire messianiche di Devs sembrerebbe nelle intenzioni proprio questa: la sintesi estrema e perseguita di un cinéma du réel, la genesi di una immagine nuova e autentica che contiene ogni altra immagine.
The box contains us.
The box contains everything.
And inside the box there’s another box.
Ad infinitum. Ad nauseam.