The Mandalorian (seconda stagione)
Con la sua seconda stagione, la serie Disney di Dave Filoni e Jon Favreau arriva a un primo stadio di maturazione e riesce a trovare la sintesi perfetta tra tradizione e linguaggi del contemporaneo.
Riflettere sulla seconda stagione di The Mandalorian comporta interfacciarsi con una realtà seriale in cui si coagulano, prima che elementi formali, spunti provenienti dal contesto produttivo e d’accoglienza della serie. Il che significa, anzitutto, studiare le strategie adottate dalla Disney nei confronti dei due poli di sviluppo audiovisivo, cinema e piattaforma streaming, prendendo atto di come la serie di Dave Filoni e Jon Favreau non possa esistere se non all’interno del contesto digitale presente.
Parlare di The Mandalorian significa dunque partire dalla fallita riforma linguistica del sistema Star Wars da parte di Disney, che con Il risveglio della forza prima e Gli ultimi Jedi poi ha provato a fare a pezzi un intero universo narrativo per poterlo ricostruire con un linguaggio adatto alla contemporaneità, salvo poi tornare frettolosamente all’ordine con L’ascesa di Skywalker, exit strategy perfetta per non inimicarsi ulteriormente un fandom già compromesso dai precedenti moti di ribellione. Jon Favreau e David Filoni ricevono quindi la green light per The Mandalorian nel momento in cui la Disney ha chiaro che la sua rivoluzione non potrà passare attraverso i lungometraggi. I due autori hanno dunque la possibilità di sviluppare una serie in uno spazio sicuro e con poco o nulla da perdere. Forse proprio sapendo di trovarsi in questa zona franca creativa, Favreau e Filoni credono di avere abbastanza campo libero per tornare su quella riforma iniziata e mai finita dalla trilogia sequel.
La prima stagione è dunque uno spazio di test: Favreau approfondisce la tecnologia Stagecraft e la ripresa in VR mentre Filoni prova già a rompere il rigido sistema Lucas esondando dal seminato, guardando tanto al western crepuscolare quanto alle atmosfere nipponiche del manga culto Lone Wolf and Cub. L’obiettivo è creare una nuova sintassi, ispirata forse alla liquidità di uno spazio scenico già modellabile dalla tecnologia, un linguaggio settato a partire da quel Disney+ che accoglierà la serie, dimensione digitale pensata per uno spettatore che è anche utente. Ormai a loro agio con il sistema produttivo e tecnologico di riferimento, Favreau e Filoni usano dunque la seconda stagione di Mandalorian per riprendere le fila di quella riforma linguistica ricostruendola a partire da una griglia sintattica inedita.
In primo luogo si precisa lo storytelling influenzato dalla gamification della prima stagione: la dimensione videoludica ora media il rapporto tra serie e spettatore, grazie a un protagonista presente in scena ma spesso defilato, quasi un alter ego dello spettatore/giocatore che, in una soggettiva traslata, utilizza Mando come interfaccia per rapportarsi con lo spazio narrativo.
Colpisce poi il modo in cui Filoni e Favreau si rapportano al world building. I due autori costruiscono il loro immaginario ibridando il prelievo postmoderno con la dimensione digitale. Il frammento non è più quindi materiale costruttivo inerte ma si carica di significato e amplifica la sua portata legandosi a spunti coevi ed evocandone altri, in un rapporto simile a quello che lega i link e gli ipertesti. Il mondo della seconda stagione di The Mandalorian è dunque un libero flusso di dati e associazioni, in cui la tradizione Lucasiana esorbita in immaginari altri, in cui il Canone convive con il cinema di Friedkin, Miller, Leone e Kurosawa dentro uno spazio mai così multimediale, in cui vengono coniugati elementi presi da videogiochi di Star Wars cancellati e altri provenienti tanto dai progetti precedenti di Filoni (da Clone Wars a Rebels) quanto dalle pellicole della gestione Disney.
The Mandalorian definisce quindi un nuovo modo di intendere l’universo narrativo. In un periodo di storie tanto interconnesse quanto rigide nelle loro componenti, Dave Filoni da tempo lavora a un’idea di spazio narrativo persistente e liberamente malleabile, un flusso informe di dati interscambiabili capace di svilupparsi a contatto con qualsiasi medium e linguaggio, dalla tv, al cinema, dall’animazione al live action.
Come degli hacker, Filoni e Favreau hanno dunque aperto un sistema chiuso, ed è chiaro che la dimensione digitale del loro agire non solo modella lo spazio narrativo e influenza la forma mentis dei due creativi ma, come dimostra il secondo season finale della serie, è anche lo strumento attraverso cui si effettua quella negoziazione tra un sistema produttivo-narrativo del passato e uno del presente lasciata finora in sospeso. Nella manciata di minuti finali dell’episodio ha luogo infatti un cortocircuito tra vecchio e nuovo canone, tra l’icona e il suo rinnovamento tramite la tecnologia, tra linguaggio e industria, tra dimensione interna ed esterna alla serie, un momento traumatico che però sviluppa quella pacificazione cercata da anni.
Al termine della seconda stagione The Mandalorian è forse il prodotto pop più attento alla contemporaneità. Ora che il sistema è aperto non rimane altro che scavare, esplorare, lasciarsi guidare dall’istinto.