Game of Thrones - Finale di serie
Riflettiamo sulla "chiusura di un'era", sugli incredibili progressi tecnologici e visivi a supporto di una narrazione ancora tutta da svecchiare e rivoluzionare.
Quando si parla di finali televisivi, ogni volta che i fan perdono la loro serie preferita sentiamo dire che è “la fine di un’era”. Difficile contare quante volte questa espressione sia stata spesa, un po’ a vuoto, per celebrare la conclusione di qualsiasi grande narrazione seriale: da I Soprano a Lost, da Mad Men a Breaking Bad. Sembra quasi che abbiamo bisogno (o meglio, che ne abbia bisogno lo spettatore medio) di credere che ogni finale di un show che ci piace segni un passaggio significativo nell’estetica e nella narrazione televisiva, per il solo motivo che è stata un’esperienza importante per noi, che siamo affezionati ai personaggi e alla storia. Nella realtà invece, spesso i finali di stagione delle serie “importanti” aggiungono pochissimo a ciò che la serie ha già detto precedentemente, spesso sono molto lontani dall’essere gli episodi migliori dello show e oscillano tra due opposti, faticando a trovare l’equilibrio: da una parte il desiderio di non scadere nell’ovvio, di stupire a ogni costo lo spettatore deludendo le sue aspettative; dall’altra la voglia di compiacere il fandom e/o di dare una compiutezza alla vicenda raccontata, sia narrativamente che iconicamente.
Tra questi due estremi si nasconde sicuramente la ricetta del finale di serie perfetto, ma pochissimi riescono ad azzeccarla e creare un episodio che non sia passibile di essere criticato, frainteso, spesso con poche sfumature amato o odiato da chi segue la serie. Persino l’equilibrato e coerente finale di Breaking Bad è stato considerato inferiore al terzultimo episodio (Ozymandias); anche la chiusura sorprendente de I Soprano è stata presa di mira dai fan perché diversa da quello che avrebbero desiderato, mentre Damon Lindelof si dovette addirittura scusare con una lettera per l’ultimo episodio di Lost, che scatenò reazioni di odio inconsuete per l’epoca (ancora “antica” in termini di abitudini social) ma che oggi, in tempi di iper-condivisione delle opinioni, risultano perfettamente normali, se non addirittura prevedibili. Per questo motivo David Benioff e D.B. Weiss, gli autori di Game of Thrones, non soltanto non stanno chiedendo scusa per il finale delle serie ma hanno preparato anche una difesa anticipata per tutte le loro scelte, attraverso il commentary che seguiva ogni episodio di quest’ultima stagione. Ogni decisione veniva spiegata, sviscerata e approfondita dal loro punto di vista, con il probabile intento di togliere ai fan ogni dubbio, rendendo però gli autori, specie dal punto di vista dei critici, arroganti e insultanti nel voler giustificare e imporre un unico modello di lettura della loro opera, trasformando un punto di vista in un canone assoluto, quasi come se volessero sostituirsi al lavoro critico mettendo le mani avanti su ogni possibile “fraintendimento” delle proprie intenzioni.
Difficile immaginare una excusatio non petita più fastidiosa e un atto di entitlment nei confronti della critica più invasivo di quanto fatto da questi due autori che, concluso il proprio lavoro, invece di accettarne il percorso naturale di giudizio e lasciarlo “libero” di essere letto dagli esperti di televisione, cerca di imporre la propria, decisamente tutto meno che oggettiva, interpretazione dell’opera mettendo le intenzioni di realizzazione davanti alla percezione esterna del risultato finale.
Perché tra intenzioni e risultato, come sappiamo, spesso c’è una distanza enorme, e l’ottava stagione di Game of Thrones (a dire il vero, insieme alle due precedenti) potrebbe essere presa ad esempio della peggiore strategia di adattamento possibile di una trama che su carta era interessante e complessa. Abbandonata giocoforza la narrazione scritta da George R. R. Martin, ma essendo obbligati – almeno stando a quanto dichiarato – a seguirne il percorso tracciato in termini di sviluppo del plot, Benioff e Weiss hanno dimostrato una caratura professionale decisamente inferiore al materiale che dovevano adattare. Superato l'impegno di trasposizione del linguaggio scritto in linguaggio audiovisivo, compito che erano riusciti a svolgere con efficacia e professionalità, i due showrunner si sono trovati di fronte al compito (superiore alle loro capacità autoriali e obiettivamente non facile) di portare a compimento idee uscite dalla mente di qualcun altro, nella fattispecie qualcuno con più talento di loro. Pur avendo in mano la conclusione della vicenda, in cui le principali svolte narrative erano già state stabilite, hanno deciso di arrivarci con un percorso figlio degli stereotipi televisivi più antiquati, proprio quelli che Martin – scrittore che ricordiamolo, ha un lungo passato televisivo alle spalle – aveva cercato di scardinare nei suoi libri scrivendo una storia per sua stessa dichiarazione «anti-televisiva».
Le svolte narrative inaspettate, come la morte di personaggi fondamentali, il senso di ineluttabilità del destino, il peso circolare di una storia che ripete sé stessa, e la feroce critica al potere e al sistema patriarcale presenti nei romanzi di Martin, si sono così svuotati di senso, trasformandosi in cliffhanger fini a sé stessi, personaggi non dominati dal destino ma dalle necessità della trama, moralismo politico spicciolo e trattamento dei personaggi femminili e maschili aderente ai peggiori stereotipi della narrazione sessista.
La follia genetica dei Targaryen ad esempio, che nei romanzi e nelle prima stagioni è caricata di significati e simbolismi legati alla dittatura e agli errori del passato che ricadono sul presente – pensiamo alla potenza iconica dei draghi che man mano che la dinastia decade, diventano sempre più piccoli e deboli – è stata trasformata, in due soli episodi, in uno stanco trope che abbiamo visto ripetersi sullo schermo mille volte: Daenerys, la donna di potere in un mondo maschile, paga la sua ambizione impazzendo per la mancanza di amore e consenso intorno a sé, verrà punita, al contrario di Sansa che invece, pur essendo diventata ambiziosa e smaliziata, gioca secondo le regole degli uomini stando al suo posto – posto che peraltro deve agli uomini intorno a sé e che ringrazia, perfino quando viene stuprata, per averle insegnato a “essere più forte”, ovvero aver capito qual è il suo posto e che l’unico modo di ottenere ciò che si vuole è abbracciare il concetto di potere del mondo maschile.
Questi sono soltanto esempi, naturalmente, di come l’utilizzo di stereotipi familiari agli spettatori, che consentono di sveltire una storia lunghissima e risparmiarsi un lungo lavoro di sviluppo narrativo dei personaggi, abbia finito per portare la storia molto lontano da dove sarebbe potuta andare, soprattutto in termini di rappresentazione del mondo, perché la pigrizia delle scelte di adattamento si riverbera fin sul significato più profondo del racconto, che nelle intenzioni di Martin era appunto un attacco alla società del presente, e non una sua riproduzione pedissequa, priva di elaborazione critica degli stessi linguaggi che perpetuano.
Quando si racconta una storia dalle intenzioni rivoluzionarie, che si pone in posizione critica al funzionamento stesso del mondo, per tradurla coerentemente e raggiungere l’obiettivo di scuotere lo spettatore è necessario ragionare sulle modalità della messa in scena: oggi, nell’affollato mondo della peak tv, non bastano infatti l’enorme investimento economico e la spettacolare resa visiva per trasformare una serie in una pietra miliare. Rispetto a otto anni fa, infatti, oggi sono molti di più gli show che investono su una resa estetica televisiva degna del cinema che stupisca l’audience e arrivi a stabilire un canone stilistico per il genere del prestige drama.
Per stagliarsi all’interno di questo panorama è necessario ormai lo stesso impegno per portare anche la narrazione ad un livello superiore, perché la pigrizia narrativa, fatta di trope e cliché televisivi stantii anziché di una scrittura che cerchi di innovarli, finisce per distanziare lo stesso spettatore dal coinvolgimento nella visione, rompendo la magia dell’immedesimazione. Inutile attaccarsi alla “sindrome del critico della domenica” o rivendicare le proprie intenzioni a posteriori, quindi, perché se audience e fandom si concentrano su buchi narrativi e cattiva gestione dell’evoluzione dei personaggi il problema non sta negli occhi di chi guarda. Lo spettatore non è infallibile ed è vittima di bias come gli autori stessi, ma nel momento in cui si rivela più interessato a smontare il prodotto finale per guardare dentro gli ingranaggi che a immergersi nel racconto, è sicuro che qualcosa, da qualche parte, si è perso.
Resta, di Game of Thrones, l’innegabile eredità di un’esperienza collettiva di visione difficilmente replicabile in tempi di binge watching e frammentazione del target, resterà anche il ricordo di un fenomeno pop che ha trasceso le nazionalità, i gusti e le generazioni e soprattutto, lo show lascerà il segno come il primo grande esperimento riuscito di fantasy portato in televisione, sia pure fuori dai canoni del genere. In questo senso davvero si può parlare del finale di Game of Thrones come della fine di un’epoca, resta solo da stabilire se (almeno per quel che riguarda le ultime tre stagioni) quest’epoca sia da rimpiangere, o da archiviare senza tanti sentimentalismi.