Fame, vergogna e schiavitù.
Polo geografico e sentimentale, grido disperato che sfonda la barriera del suono, il corpo è assieme oggetto d’analisi e soggetto dello sguardo (e delle percosse), causa efficiente e formale, mappa del percorso cinematografico di Steve McQueen. Hunger e Shame, episodi complementari di un dittico ideale, appaiono come frammenti di un dialogo sul corpo: alla massa svuotata e prosciugata, al fisico umiliato, simbolo di un’autentica ascesi politica, McQueen contrappone l’autorità della carne, la bulimia sessuale, la smania di possesso dell’altro. Al sacrificio del corpo come atto d’amore risponde la fame di chi vive per possedere e consumare, ma è vergognosamente incapace di amare.
E’ chiaro come il cinema di McQueen ruoti intorno al logorio (all’esaurirsi) del corpo fino a farsi grido disperato e lacerante dello schiavo. Bobby Sands si sacrifica in nome della libertà all’interno di un contesto storico-politico, Brandon è schiavo della sua stessa voluttà all’interno di un ordine libidinoso. Il passo successivo, coerentissimo, non poteva che essere 12 Anni schiavo, ultimo tassello di una sorta di trilogia politica sulla schiavitù. Il discorso di McQueen avrebbe potuto riscriversi all’interno della Storia, in quell’Ottocento barbaro e cieco che teorizzava la supremazia della razza bianca. La questione razziale avrebbe così rideclinato il nucleo politico di Hunger e quello umano, troppo umano di Shame facendoli convergere nel medesimo obiettivo: la ricerca di un’agognata, trasognata libertà. Ma questo condizionale smacca irrimediabilmente qualsiasi nobile intenzione. Perché 12 anni schiavo non è ciò che avrebbe potuto essere. E’ allora proprio il tema del corpo ad assumere una dimensione decentrata, slittando da soggetto pensante a oggetto di uno sguardo più interessato alle nefandezze della Storia che alla tracce somatiche.
Il corpo appare come silenziato, carne umiliata eppure edulcorata da uno schematismo psicologico ed estetico fuori tempo massimo. La vittima è sottoposta alla patina stessa di un’immagine da cinemascope: 12 anni schiavo è il primo confronto di un autore con il grande cinema classico Americano, con le grandi epopee della libertà, ma quello che ne viene fuori è un’opera che nel suo intento mimetico perde, edulcora tutta la potenza di uno sguardo che qui si fa illustrativo, didascalico, terribilmente appianato. Rabbia, ardore, incendi emotivi e contraddizioni umane sembrano ripiegarsi su se stessi regalando al pubblico un film-pacchetto, preconfezionato e subito pronto per l’uso. L’impressione di assistere a un compitino ben svolto, quasi didattico nel suo incedere assiologico, intrappola lo spettatore dalla prima all’ultima immagine. La pelle sguainata è lì, esibita, ma mai realmente indagata: quello che manca, duole dirlo, è lo sguardo. Non la messa in scena, che è curatissima – e non potrebbe essere altrimenti – ma la sua stessa natura, più interessata alla perfetta funzionalità del racconto piuttosto che al singolo individuo.
12 anni schiavo McQueen non è mai stato un cineasta trasparente e, nell’adottare le prospettive del classico, si fa autore invisibile. A furia di sottrarre, di asciugare, di mirare a un’essenzialità scevra di qualsiasi ostentazione, finisce per mancare a se stesso, per vivere nell’ombra di un film che non c’è. Perché quello che rimane è una narrazione incredibilmente schematica, una lezione di Storia, che per scorrere ha bisogno di far leva sulla sua stessa prevedibilità. Per funzionare adotta tutti i crismi del linguaggio d’intrattenimento, sottolineando con la colonna sonora ogni sentimento, con la parola ogni emozione, cadendo nella trappola del sensazionalismo e della commozione fini a se stessi. Nel raccontare la Storia McQueen firma dunque la sua opera non solo più convenzionale, ma paradossalmente più finzionale, incapace di rendere conto della complessità di un fenomeno antropologico – la schiavitù – che è alla base di qualsiasi rapporto di potere, fin dai tempi più remoti. Certo è che l’incipit faceva sperare in ben altro risultato: al contrario di molti film di genere – e il termine sia inteso nella sua accezione più povera e uniforme – l’uomo nasce libero e, dopo una serie di circostanze, si ritrova schiavo. Questo avviene nel corso di una notte che assume la dimensione spettrale di sospensione del quotidiano, d’improvvisa, lancinante rottura col mondo ordinario. L’uso sapiente e articolatissimo dell’ellissi permette un totale, sorprendente ribaltamento: il protagonista si risveglia nell’oscurità quale sagoma incatenata alla ricerca della luce. Si tratta di gran lunga della sequenza migliore del film, che configura immediatamente la schiavitù come l’incubo sempre eventuale dell’uomo libero. Questa è purtroppo la prima e ultima intuizione del film.
Il problema, si diceva, è nel singolo. I personaggi non riescono mai a liberarsi dalla loro identità di tipi, o meglio di funzioni narrative che permettono alla narrazione di evolvere. L’insegna della storia vera, assicurazione modaiola di tanto cinema contemporaneo, pare autorizzare qualsiasi procedimento narrativo, mentre ci si scorda che un film, perfino il più storico, è sempre e comunque riconfigurazione della realtà. Ecco allora ottimi attori che danno vita a personaggi insipidi, privati di qualsiasi sfumatura psicologica, schiavi di una visione protomanichea che nel 2014 ha fatto il suo tempo (e i suoi danni). Perfino l’ottimo Michael Fassbender, straordinario attore feticcio del cinema di McQueen, è completamente prigioniero di un personaggio rigidissimo, cui spesso si fatica a credere, e così ogni altro volto del cast. Da Paul Giamatti a Paul Dano, sono tutte vittime di dualismi categoriali che bipartiscono semplicisticamente l’intero mondo narrativo. Forse solo Benedict Cumberbatch si libera della schiavitù della funzione, rilevando un carattere gentile ma uno squallore esistenziale con pochi precedenti: figura carismatica e insieme mediocre, umana ma terribile, riesce a far coincidere in sé una serie di doppi, di contrari, senza superarli, ma anzi incarnando la contraddizione stessa. Aspetto lodevole in un film che assolutizza tutto: basti pensare al patetico ruolo di Brad Pitt, autentico deus ex machina spuntato dal nulla, personaggio illuminato che ci spiega l’assurdità della schiavitù.
Complice un didascalismo di fondo, un disequilibrio tra le parti, 12 anni schiavo è l’ombra del film che poteva essere. Perché da ogni campo lungo di McQueen esala un’aria di cinema gigantesco, e così ogni primo piano è capace di rammemorare quella potenza perduta: come a dire, il volto, campo umano, geografia dell’anima con cui empatizzare, perde tutto il suo vigore nell’inquadratura successiva, per ritornare all’ennesimo racconto tratto da una storia vera.