Youth - La giovinezza
Sorrentino torna ad affrontare il tema della morte con leggerezza vera e presunta, ma questa volta oltre il trucco esiste l'emozione autentica di un'amicizia, sentimento che argina maniera e furbizia.
“Altrove c’è l’altrove, io non mi occupo dell’altrove”. Pur essendo un regista ossessionato dalla “bella immagine” e abituato a lavorare su di essa ai limiti del formalismo, Paolo Sorrentino è anche uno sceneggiatore cui piace esprimersi a colpi di frasi a effetto, sentenze lapidarie spesso in voluta contraddizione tra di loro. Capita allora che nella chiusura de La grande bellezza venga offerta a chiare lettere la chiave di volta del nuovo percorso intrapreso dal regista napoletano dopo il pasticciaccio di This Must Be the Place.
Il monologo finale di Jep Garbardella infatti è alquanto esplicito nel dichiarare il carattere effimero dell’esistenza, priva di appigli spirituali e soprattutto di antidoti reali nei confronti dell’ossessione più grande, la paura della morte. Youth – La giovinezza prosegue in questa direzione, confermando come quello di Sorrentino sia oggi il cinema materialista di un intellettuale laico un po’ troppo innamorato di sé ma anche genuinamente interessato ad indagare l’arte e il rapporto umano con la morte.
Nella cornice dello svizzero Schatzalp Hotel – ultima incarnazione del sanatorio in cui Thomas Mann ambientò il suo La montagna incantata – facoltosi ospiti da tutto il mondo vengono per nascondersi da occhi indiscreti e curare spirito e corpo. Tra questi ci sono Fred e Mick, Michael Caine e Harvey Keitel, rispettivamente direttore d’orchestra in pensione il primo, regista alle prese con il suo “testamento” il secondo. Accanto a loro una squadra di sceneggiatori fedeli, un attore hollywoodiano in preparazione per il ruolo di Hitler (Paul Dano), un sosia di Diego Armando Maradona (con gigantografia di Marx tatuata sulla schiena), una Miss Universo, e i loro figli. Soprattutto quella di Fred, Leda (Rachel Weisz), che si ferma qualche giorno in camera assieme al padre per riprendersi da una delusione amorosa.
Tutti assieme formano un’umanità bifronte nella quale convivono bellezza e grottesco, gioventù e vecchiaia, nella seduzione e decadenza di corpi comuni incastonati come istallazioni nei vari ambienti del centro benessere dell’hotel. Saune e piscine diventano gli sfondi per un’esposizione corporale che vuole unire alto e basso, aulico e materia, lontano però da quella plasticità più diretta e ruvida che un tempo animava queste immagini e tanto faceva pensare ad Elio Petri.
Ormai l’immagine di Sorrentino ha superato i suoi referenti sempre troppo declamati e ha intrapreso un percorso personale e coraggioso volto alla ricerca del sacro, all’individuazione di quella bellezza necessariamente laica e materialistica che soggiace al grottesco. Certo non siamo in una versione meno cinica del cinema di Ciprì e Maresco, pur riflettendo qui sul rapporto fra semplicità ed emozione Sorrentino non vuole sporcarsi direttamente le mani ma preferisce ancora filtrare la materia attraverso una prospettiva intellettuale. Un filtro stilistico fortissimo che sarebbe però tanto facile quanto inutile bollare semplicemente come maniera. E’ innegabile infatti come Youth sia un film ben più asciutto e rigoroso di quanto fosse lecito aspettarsi dall’autore, che invece sfoga tutta la sua riconoscibilità in fase di scrittura. E in questo equilibrio inedito sentiamo un cuore reale battere anche dentro Youth, un cuore che cerca ancora una volta un modo di raccontare l’emozione, e pur compiacendosi sempre del proprio distacco la guarda ammirato come uno spettatore oltre una guglia di vetro.
Complice l’inattesa ironia, la leggerezza dei toni e uno sguardo meno barocco rispetto al solito, Youth potrebbe apparire come un film in scala ridotta, meno ambizioso e denso del precedente e soprattutto quasi un divertissement per un regista magniloquente come Sorrentino. Ma, come dichiara una delle tante sentenze che popolano anche questo film, la leggerezza è sì tentazione irresistibile ma anche perversione, e allora è meglio fingere di non prendersi sul serio per poi portare avanti comunque le proprie ossessioni, la propria forma, la propria visione di cinema.
Youth allora è un film che si proclama frivolo mentre sa divertire e incantare, che elogia genuinamente la semplicità ma non rinuncia ad una prospettiva intellettuale di cui comunque sbeffeggia certi atteggiamenti, ma soprattutto è un’opera che si popola di riflessioni lasciate a metà riguardanti l’amore e la redenzione, lo scopo dell’arte e il suo legame con la vita, ma nel frattempo non riesce a pensare ad altro che alla morte, al tempo che ci resta e al tentativo di trovare un senso all’esistenza in una logica che escluda ogni ricorso non terreno. Il soggiorno di Fred diventa allora un percorso a tappe verso una nuova giovinezza, un viaggio che passa attraverso il contatto diretto con l’erotismo, il confronto con la fine e con i torti esercitati nei confronti dei propri cari. Ma alla fine di questo calvario, la cui carnalità viene sublimata dalla sacralità grottesca dello sguardo, non troviamo di nuovo una donna salvifica quanto piuttosto l’amicizia tra Fred e Mick, un sentimento quasi inedito per Sorrentino e che qui diventa l’unica strada possibile per toccare quelle emozioni che Mick vorrebbe così tanto riuscire a narrare. Troppo dei tanti altri temi che compongono il film viene gestito con una freddezza calcolata, che rischia di trasformare il distacco in cinismo; meglio allora cavalcare i vari giochi imbastiti sui massimi sistemi per prenderli per quello che sono davvero, giochi, allusioni, sensibilità intelligenti e suggestioni che sfociano a volte nella furberia, mentre il senso più profondo si costruisce lentamente lungo la narrazione, sotto lo sguardo di corpi antichi che sconfinano nel sacro, fino alla bellissima immagine finale.