After Earth - Dopo la fine del mondo
Dopo il più grande flop della sua carriera, Shyamalan viene a patti con la presenza divistica di Will Smith in un film che, nel bene e nel male, segna il ritorno al suo cinema più personale e maturo.
Eccessiva sintesi e confusione negli eventi, nessun senso dell’epica ed estrema superficialità psicologica dei protagonisti; così potrebbe essere riassunto senza mezzi termini L’ultimo dominatore dell’aria, un film massacrato da critica e pubblico che resta il punto più basso nella parabola artistica di M. Night Shyamalan. A testimoniare la presenza del regista de Il sesto senso rimaneva solo quella predestinazione – derivata del confucianesimo orientale – che aveva già caratterizzato diversi dei suoi personaggi, troppo poco per salvare un lavoro così mal calibrato. A tre anni di distanza il regista indio-americano torna invece con un film che, pur collocandosi sull’onda dei nuovi blockbuster di fantascienza hollywoodiana, si rivela perfettamente in linea con la sua poetica e trova i motivi del proprio successo pressappoco dove il precedente aveva fallito: costruito unicamente su due personaggi e le loro interazioni, After Earth rispetta una rigorosa unità d’azione e dilata un singolo elemento narrativo – il rito d’iniziazione – a film intero, mettendolo in scena con quello squilibrio che favorisce l’intimismo familiare all’azione e che da sempre è la cifra caratteristica del cinema di Shyamalan.
Pur non raggiungendone le vette, After Earth ricorda in questo senso Unbreakable, per il modo in cui manipola il genere di riferimento bypassando l’azione a favore dei personaggi, sui quali il film costruisce implicazioni tra il filosofico e l’esistenziale. Ma se lo splendido film con Bruce Willis e Samuele L. Jackson riusciva al contempo a tessere stretti legami tra tali riflessioni e l’identità del genere usato – o meglio del medium usato,il fumetto, di cui il film è ancora oggi la migliore esplorazione concettuale su grande schermo –, in After Earth la fantascienza rimane un pretesto narrativo evidentemente inerte: quella raccontata da Shyamalan è una storia che nella sua semplicità potrebbe esser tranquillamente trasposta all’oggi, e che nulla ha di fantascientifico nella sua essenza. Quanto sarebbe stato bello quindi se il film avesse avuto il coraggio di portare fino in fondo la sua prima inquadratura, quell’incidente spaziale nel quale ci troviamo scagliati sulla Terra non conoscendo alcun contesto o punto di riferimento, invece di abbandonarla a favore di una piatta spiegazione iniziale pronta a subentrare in flashback, e atta a consegnare allo spettatore coordinate di cui non avrà mai reale bisogno nel corso della visione. Che ci siano degli alieni, che gli uomini siano fuggiti da una Terra devastata per rifugiarsi su Nova Prime, che sia in corso una guerra, sono tutte informazioni non necessarie, rami secchi esposti forse più per supportare un eventuale franchise che altro, e che eliminano ogni alone di mistero per lo spettatore. A ben guardare è questo il vero limite di After Earth, la totale assenza di quel fuoricampo che ha da sempre caratterizzato in positivo il cinema di Shyamalan, refrattario fino a due film fa a mettere troppo a suo agio il proprio spettatore. Qui invece tutto è detto, tutto è esplicitato, e come se non bastasse la voce guida di Will Smith accompagna i progressi del figlio in ogni sua mossa. Se è apprezzabile il coraggio di relegare la star del film ad un’immobile prigionia all’interno dell’astronave distrutta, d’altra parte questa presenza (anzitutto divistica) non viene mai messa veramente in discussione, come un’icona invadente intenta a legittimare la narrazione con la propria presenza. Non a caso è proprio dal momento di ribellione del figlio (intra ed extradiegetico) Jaden Smith che il film guadagna respiro, aprendosi finalmente a soluzioni visive più ricercate per lasciarsi andare, libero dalla gabbia di continue linee di dialogo.
Nonostante questi legacci divistici, si diceva, After Earth è a nostro avviso un film riuscito, e lo è perché con esso Shyamalan torna ad affrontare i temi che da sempre vivono come fantasmi nel suo cinema, ripresentandosi film dopo film in incarnazioni diverse. Anzitutto protagonista torna il rapporto tra i personaggi, quell’intimismo che lo contraddistingue e rende molti suoi film esplorazioni psicologiche e incontri tra visioni contrapposte; in quest’ottica si spiega la non spettacolarità di After Earth e i suoi tempi dilatati, che ruotano ossessivi sul perno di un ricordo traumatico. Allo stesso tempo si torna a raccontare una favola, qui ridotta all’osso e incentrata sul pericolo e il coraggio, sulla paura e la necessità di affrontarla per crescere e diventare adulti: After Earth altro non è che un primordiale rito di iniziazione esteso a film, è la storia del giovane guerriero lasciato fuori dal suo villaggio ad affrontare da solo la bestia, sconfitta la quale potrà tornare a casa e chiamarsi uomo. Quello affrontato da Kitai è un intenso percorso di formazione che ha come obiettivo la sconfitta della paura e l’accettazione della responsabilità, e in questo senso il personaggio è perfettamente in linea con i suoi predecessori; che si tratti di accettare poteri, la propria morte, o che la realtà è diversa da quella che ci hanno raccontato, i personaggi di Shyamalan sono costantemente chiamati alla prova di coraggio, e di fronte ad essa devono o cadere o tornare più maturi.
Inedita è invece la critica antimilitarista che filtra dalla storia; a ben vedere il primo passo di maturità per Kitai avviene proprio nel momento in cui cessa di obbedire agli ordini, dismettendo il ruolo di ranger per essere solamente e finalmente figlio. Medesimo obiettivo conquistato dal padre, che nel finale abbandona i marziali – e ridicoli – toni militari tenuti per tutto il film. Entrambi scoprono così non solo che il coraggio e il valore possono vivere al di fuori della divisa, ma che è evadendo dalle sue rigide regole formali che possiamo trovare un’identità più sincera e matura. Un bel colpo di coda per un film non perfetto, carico di ingenuità e forzature in fase di scrittura, ma che segna senza dubbio il ritorno di Shyamalan ad un cinema più personale e maturo.