Andiamo a quel paese
Il film più debole del duo comico palermitano certifica l'involuzione della comicità di Ficarra e Picone, divenuti troppo esili per il grande schermo.
Arrivati al quinto film, Salvo Ficarra e Valentino Picone, duo comico televisivo che al cinema ha trovato ben più fortuna di altri loro colleghi, paiono arrivati a un punto definitivo di non ritorno. A dire il vero, guardando alla loro carriera, solo Il 7 e l’8 riusciva a imporsi con un discreto margine di originalità nel panorama della commedia italiana contemporanea, attraverso una girandola degli equivoci che verrebbe da definire di “puro intreccio”, tutta capovolgimenti e spiazzamenti sostanziali, giocando sull’alchimia dei due e facendo risalire il loro legame addirittura alla culla. Da quel film in poi la parabola discendente è stata vistosa, tra meccanismi intenti a logorarsi spietatamente e tempi comici che, poggiando sempre e solo sugli stessi elementi, hanno finito con l’esaurire tutta la loro potenziale verve. Anche il gioco dei caratteri agli antipodi, speso tra lo sbruffone e trafficone Ficarra e il candido e ingenuo Picone, si è andato facendo sempre più abusato e dunque superfluo, a tutto vantaggio di un armamentario di gag televisive che poco hanno a che vedere con il cinema.
Se il loro penultimo film, Anche se è amore non si vede, ci regalava in compenso un gustoso valzer delle coppie con tanto di finale pirotecnico, ecco che Andiamo a quel paese s’affida in tutto e per tutto allo sketch e alla battuta estemporanea, abbassandone per altro il livello di riuscita e venendo meno a tutti gli obblighi della scrittura cinematografica. L’umorismo di Ficarra e Picone, che da Palermo si spostano a Monteforte dove la vita è meno cara e ci sono tante vecchiette cui provare a spillare la pensione, sembra essersi ridotto, oggi più che mai, a un birignao para-televisivo sciatto e telefonato, come se una regressione forzata li avesse portati nuovamente sul palco di Zelig (dove comunque mordevano molto di più), al livello degli altri comici decisamente meno ispirati che all’epoca bazzicavano quello scenario. Sarà stato forse il troppo tempo sul balcone di Striscia La Notizia, che ormai da anni annaspa tra freddure tristanzuole e risapute, a renderne così ammuffita l’immaginazione e l’estro? Perché l’involuzione è evidente e vistosa e in Andiamo a quel paese non lascia davvero campo a nessun alibi. Se si esclude una primissima parte più mordace e cattivella, senza per questo dover tirare in ballo lezioni monicelliane e risiane (anche se, proprio come ne I soliti ignoti, abbiamo un buco), il resto del film, farsa scaccia-crisi sui generis, imbocca una parabola discendente senza fine.
C’è chi davanti al loro cinema si è concentrato sull’impareggiabile fisiognomica (Gianni Canova a proposito del volto di Ficarra ha tirato in ballo echi figurativi alla Pablo Picasso), chi è ancora disposto scomodare il magistero di maestri dell’impersonalità quali Camillo Mastrocinque e Mario Mattoli, che erano capaci di imbastire delle regie di assoluto mestiere al servizio dei più iconici attori comici di casa nostra, sparendo letteralmente dietro al Totò di turno ma mantenendo vigile l’equilibrio della messa in scena, a prescindere da quanto fosse alimentare. Ficarra e Picone però con quel mondo centrano poco e sono ben lontani dal tentare anche solo di emulare quei modelli aurei (figuriamoci dunque se possono costituirne una sorta di versione aggiornata): non si limitano infatti a fare i registi (ormai dirigono perfino in solitaria e non più con Giambattista Avellino), ma pongono sempre se stessi al centro del proprio mondo siciliano ombelicale e confinato nella stanca e scialba macchietta, nel quale ogni riferimento all’Italia di oggi, arraffona e ladruncola esattamente come quella della commedia di ieri, non viene mai fatto dialogare col contesto della narrazione, sempre più simile a un’impomatata e fastidiosa cartolina. Senza contare che, rispetto ai grandi nomi sopraccitati, Ficarra e Picone hanno per altro perso quella che una volta era un loro marchio di fabbrica: l’ottima gestione e valorizzazione dei caratteristi, spesso raccattati dalla strada e totalmente azzeccati nel ruolo che il duo gli cuciva addosso (si pensi ad esempio al monumentale Tony Sperandeo de Il 7 e l’8). Qui troviamo invece una Fatima Trotta totalmente sottoutilizzata, un Nino Frassica cui spettano i desolanti intermezzi del barbiere dal cui salotto passano tutti gli affari del paese e il grande attore teatrale Mariano Rigillo nei panni di Padre Benedetto, al quale tocca un ruolo interessante di prete innamorato ma totalmente fuori contesto, per il quale un interprete di quel livello è tanto spaesato quanto sprecato.