Roma Termini
Il documentario di Bartolomeo Pampaloni incontra la commozione nell'equilibrio tra distanza e partecipazione
Stella Bruzzi, grande e spesso anticonformista studiosa americana del cinema documentario, ha definito in modo molto preciso il cosiddetto documentario performativo, identificandolo in quella tipologia di cinema del reale in cui il regista fa sentire la sua presenza dietro e davanti la macchina da presa in maniera tangibile piuttosto che starsene in disparte, sfuggire ad essa o addirittura confinarsi apertamente in un fuori campo in cui è parte totalmente inattiva ed esterna rispetto a ciò che accade sulla scena. Per chi scrive si tratta di un’operazione senza ombra di dubbio ad alto tasso di manipolazione e distorsione, non tanto quando si ha a che fare con documentari più romanzati e spettacolari, che l’implicazione in prima persona la richiedono a gran voce, anche da parte dello spettatore, quanto piuttosto quando la materia è già così scottante e delicata sotto il profilo umano e morale da non richiedere ulteriori ingerenze.
E’ il caso, quest’ultimo, del documentario di Bartolomeo Pampaloni Roma Termini, presentato nella sezione Prospettive Italia del festival di Roma e vincitore di una menzione speciale. Un film piccolissimo, in presa diretta e senza fondi, con in più un’ostilità delle istituzioni facilmente immaginabile e comprensibile, che esplora il lato nascosto della principale stazione romana e italiana (la seconda in Europa): un gigantesco punto d’arrivo e di partenza in cui ogni giorno transitano centinaia di migliaia di persone in viaggio, dalle storie più disparate ma anche dal vissuto talvolta drammatico. Il regista fiorentino ha scelto infatti di filmare non chi la attraversa di passaggio ma chi la abita in pianta stabile, appena a pochi metri da noi. Una sotto-comunità sepolta e miserabile che vive vite parallele negate e innominabili agli occhi del mondo esterno. Pampaloni evita le furberie performative cui si accennava sopra o le scorciatoie ad effetto, ma emoziona di soppiatto, lentamente, attraverso il racconto progressivo, arrivando a far emergere la commozione solo nel finale in modo lampante e inequivocabile. Quando il congedo da quelle quattro vite di uomini come tanti eppure incapaci di tenere in mano le proprie esistenze appare così inevitabile da risultare per forza di cose doloroso.
Il regista però, pur rimanendo saggiamente fuori da quelle immagini e da quell’umanità lercia e frantumata, lascia che sia il suo stesso, pudico coinvolgimento nelle storie degli homeless di Roma Termini e nel loro quotidiano a lasciare allo spettatore la possibilità di immedesimarsi, provando anche lui un sentimento di vergogna e inadeguatezza che è, come minimo, un atto civile e umano dovuto. Pampaloni ha infatti vissuto insieme ai senzatetto divenendo loro amico, guadagnandosi la loro fiducia, così da permettere che essi lo chiamassero per nome e stabilissero un contatto che andasse oltre la singola ripresa e il momento isolato dell’inquadratura presente. Il risultato è squassante nella sua dose massiccia di disperazione, che raggiunge chi guarda lasciandolo boccheggiante e facendolo sentire un po’ parte di quel fallimento che scorge sullo schermo, in forma non mediata e non edulcorata, che si tratti dell’uso del metadone per andare avanti, di una famiglia che non si rivede più da chissà quanto tempo o di altri frammenti di vita (non) ordinaria. Gira benissimo, Pampaloni, con stile tanto caloroso e lirico quanto sfocato e grezzo, tanto che il rapportarsi con la realtà travalica se stesso e crea suo malgrado una narrazione avvolgente in cui è impossibile non sentirsi chiamati in causa, pur nel malessere totale e senza ritorno.