Haider
L'Amleto indiano, vincitore nella sezione Mondo Genere al Festival di Roma, convince sotto il profilo psicologico ma non su quello estetico
La produzione di William Shakespeare rappresenta da sempre una miniera d’oro da cui il cinema ha attinto a mani basse e in modo assolutamente indiscriminato. Sarà per la struttura solidissima dei drammi (e delle commedie) del Bardo, che chi definisce il miglior sceneggiatore della Storia del Cinema di sicuro non sbaglia, ma anche per via del fatto che il celeberrimo scrittore inglese ha provveduto a dar vita a un campionario umano così vasto e basilare per la storia culturale dell’Occidente da risultare difficilmente replicabile (e migliorabile). Haider, versione moderna dell’Amleto shakespeariano diretta da Vishal Bhardwaj, è ambientato nella regione indiana del Kashmir nel 1995 e ha come protagonista uno studente di poesia che ritorna a casa dopo la morte del padre. La sua famiglia però pare aver perso il lume della ragione, la madre e lo zio adesso stanno insieme e Haider è totalmente basito e sconfortato dalla situazione. Un sentimento sempre più violento crescerà dentro di lui fino a spingerlo a compiere atti che non avrebbe mai pensato di poter portare a termine, accecato dalla voglia di vendetta contro lo zio che ha sfasciato la sua famiglia.
Il film indiano di Bhardwaj, presentato nella sezione Mondo Genere all’ultimo Festival di Roma e vincitore del Premio del Pubblico, pone dei quesiti interessanti sulla natura di qualsiasi adattamento, specie se alla luce di una sensibilità contemporanea che sia autenticamente vissuta sulla pelle della storia e non solo esteriore, visibile nei colori e nelle apparenze pop e sgargianti, come avveniva nel per il resto assolutamente letterale Romeo + Juliet di Baz Luhrmann. Se dal punto di vista delle dinamiche narrative e delle tematiche in ballo questo nuovo Amleto indiano coglie nel segno e appare complessivamente riuscito e ricco di stimoli, amplificando nell’ottica di psicologismi e freudismi più moderni le pagine di Shakespeare, è sotto il profilo strettamente legato all’equilibrio cinematografico che suggerisce qualche dubbio in più.
Il regista, già alle prese con delle versioni personali del Macbeth e dell’Otello, rispettivamente Maqbool e Omkara, ha chiaramente un retaggio culturale differente e viene da una nazione dall’impronta ingombrante e fortemente continentale, in cui la spettacolarità fastosa e coreografica di Bollywood la fa da sempre da padrona. Ma il cinema indiano può essere naturalmente anche altro, e in questi anni talvolta lo è stato, solo che Bhardwaj pare scontare un debito eccessivo con il cinema popolare di casa sua lasciandosi sfuggire una compostezza complessiva della messa in scena che avrebbe trasformato il film, già di suo volenteroso e sufficientemente sfaccettato dal punto di vista della fenomenologia dei sentimenti, in qualcosa di più armonico anche a vedersi (e non soltanto a pensarsi, nella mente quanto nel cuore). Le danze che di tanto in tanto fanno capolino sono l’elemento rivelatore di tale irrisolutezza, propria di un film che purtroppo si arresta a metà strada, standosene un po’ di qua e un po’ di là. Con un’ambivalenza che ad alcuni apparirà inevitabile ma che in realtà può far giustamente storcere il naso e avanzare non pochi dubbi sul confine tra reinterpretazione lecita e appropriazione pura e semplice, travestita da ri-codificazione, di qualcosa di lontano per appartenenza e origini che si tenta in tal modo di assoggettare a sé. Haider non calca tuttavia troppo la mano su quest’aspetto, tributando il quantitativo minimo di fedeltà anche iconografica al Bardo, ma le incertezze persistono e mettono un po’ in ombra l’intera operazione.