Os Maias - (Alguns) episódios da vida romãntica
Os Maias è la magnifica illusione del cinema al lavoro, che si rilancia ad ogni sguardo, situazione, battuta.
O del sublime incantamento del cinema. João Botelho, regista colto e raffinato, sa bene quanto ogni film sia sempre anche un documentario sulla propria lavorazione. Sul corpo degli attori, naturalmente, ma anche sul tempo delle riprese, sul set. Forse per questo sceglie di iniziare il proprio film partendo dal materiale preparatorio. La prima inquadratura mostra infatti il narratore seduto al centro di una stanza, circondato da fotografie, documenti ed oggetti di scena. I movimenti della macchina da presa accarezzano dolcemente pagine di sceneggiatura, costumi, bozze scenografiche, come fossero ricordi di una vita passata che si vorrebbe far tornare, foto sbiadite di un’altra epoca, di un altro tempo nel quale forse era ancora tutto possibile prima dell’intervento definitivo del montaggio. Questo materiale inerte apparentemente senza vita eppure già potentissimo nel suo fascino ipnotico, contiene la promessa di un film ancora da vedere e che pochi secondi dopo nasce davanti ai nostri occhi. Una sorta di miracolo, in cui le parole scritte e i disegni prendono vita, pulsano sangue, carne, desideri, diventando materia per il nostro sguardo e per i nostri sogni. Il tempo evocato dagli oggetti di scena rimanda in primo luogo a quello delle riprese, ma soprattutto al tempo in cui è ambientata l’opera (fine Ottocento), come se fossero reperti di un museo, tracce storiche. Un tempo impossibile da portare indietro, se non attraverso il gesto cinematografico. E allora questo sorprendente incipit, solo superficialmente meta-testuale, racchiude il senso e il cuore dell’operazione: mostrare la magnifica illusione del cinema al lavoro, mentre si produce e si alimenta, rilanciandosi ad ogni sguardo, situazione, battuta. Un’illusione, sembra dirci Botelho, che può nascere ovunque e generarsi da qualsiasi oggetto. Non c’è bisogno di niente se non di un gruppo di attori, di un testo e di un set più o meno verosimile. Nel cinema di Botelho siamo portati al cospetto di una diversa verosimiglianza, che non si misura in rapporto alla presunta oggettività del reale, ma risponde solo a logiche interne alla rappresentazione. Una rappresentazione che si affida, come sempre nell’opera del regista e più in generale nella scuola lusitana dei grandi De Oliveira e Monteiro, al potere evocativo e fabulatorio della parola, capace, più di una ricostruzione puntigliosa, di generare storie, personaggi, visioni. L’artificio (il bianco e nero, i fondali dipinti, i fari) lavora in opposizione al suo senso apparente. Certo, esplicita la natura posticcia ed ipocrita dell’aristocrazia ottocentesca portoghese, chiusa in un mondo di cartapesta a giocare con la vita, mentre intanto il paese fuori è sull’orlo della bancarotta (funesto presagio della situazione economica attuale), ma allo stesso tempo concorre a creare una diversa e più profonda verità, che è quella dei sentimenti e delle emozioni, la sola che conta al cinema. Restano impresse nella memoria la morte del patriarca, risolta nel baluginare improvviso di una luce fuori campo, i suoi incubi, filmati con ottiche sokuroviane che comprimono e distorcono l’immagine; le lunghe schermaglie poetiche e amorose giocate sul filo di un’ironia sottile e a tratti pungente; e poi quei viaggi in carrozza dove si fa sempre lo stesso percorso come in un girotondo infinito d’amore, morte, tradimenti e menzogne. Il cinema, in fondo, non è che un gioco, una mascherata, come ci ha ricordato Mankiewicz e più di recente Tarantino. Un gioco leggero, effimero, eppur serissimo. La notte è solo un artificio della luce.