Lightyear - La vera storia di Buzz
Lightyear appartiene all’universo toystoriano ma ne è un’appendice finzionale, più che funzionale, che ci permette di riflettere e comprendere lo stato attuale del cinema Pixar, tra esiti non sempre convincenti.
«Narrare mi tiene vigile», ripete Buzz in risposta all’ufficiale Alisha Hawthorne che gli chiede ragione dei suoi continui soliloqui. La parola e lo sguardo racchiusi in una frase che assume un significato identitario e riassume un’idea metadiscorsiva, tanto per l’astronauta quanto per il cinema Pixar. Da qui parte il viaggio di Lightyear – La vera storia di Buzz, ventiseiesimo lungometraggio della casa di Emeryville, primo titolo a tornare sul grande schermo dopo la parentesi del trittico Soul, Luca e Red distribuiti in streaming su Disney+ tra la fine del 2020 e i primi mesi del 2022. Realizzato da Angus MacLane, storico animatore Pixar dal 1997 e, al fianco di Andrew Stanton, già alla regia del sequel Alla ricerca di Dory (2016), il film si apre su una didascalia che lo contestualizza, consegnando allo spettatore la natura ibrida di un progetto, almeno sulla carta, curioso e ambizioso: nel 1995 un bambino di nome Andy si appassiona di un giocattolo, la nota action figure di Buzz Lightyear, dopo aver visto un film in cui lo space ranger è protagonista di un’avventura intergalattica. Noi stiamo per guardare quel film dove si racconta la storia di un uomo caparbio e ostinato, Buzz appunto, spinto da orgoglio e smisurato ego e causa di un errore fatale che costringe la colonia terrestre a rimanere bloccata su un pianeta selvaggio e ostile. Tra viaggi nel tempo, trappole spaziali e imprevedibili incognite, Buzz dovrà fare i conti con un futuro temibile, nuovi incontri, ma soprattutto con sé stesso.
Lightyear non è un prequel di Toy Story, quindi. E difficilmente si può considerare uno spin-off. Semplicemente è il film che ha dato il via ad un’amicizia, quella tra Andy e il suo giocattolo Buzz. Appartiene all’universo toystoriano ma ne è un’appendice finzionale più che funzionale.
Ed è il film giusto per capire, oggi, il cinema Pixar. Tanto interessata ad esplorare nuove collocazioni all’interno del mercato dell’animazione quanto, soprattutto, a confermare la natura del proprio atteggiamento capace di meravigliare e intrattenere diverse tipologie di pubblico, negli ultimi anni Pixar ha più volte ribadito questa tensione produttiva, artistica, distributiva che la anima pur non nascondendo i suoi lati deboli e meno compiuti. Dopo Toy Story 3, dal 2010 quindi, la casa di Emeryville ha realizzato quindici lungometraggi di cui otto originali e sette seriali (Lightyear compreso); nonostante rotazioni e variabilità delle proposte abbiano generato non poche reazioni contrastanti, qualche delusione e pochi sollievi, dentro questa tensione è forse possibile rintracciare il tentativo di ribadire a chiare lettere un concetto espresso fin dalle origini: tutto cambia perché nulla cambi.
Infatti, la suggestiva idea metadiscorsiva che apre Lightyear riflette la cifra di un mondo e di un modo che per resistere necessitano continuamente di essere al centro di una narrazione e di un’attenzione. Tanto Buzz, quanto Pixar, ma ovviamente, il cinema tutto, per riuscire a non soccombere alle trasformazioni del tempo devono entrare in relazione con la memoria. Da questo punto di vista, la prima parte di questo film è molto ben calibrata ed efficace per come riesce a raggiungere il suo climax emotivo nella scena del saluto Buzz-Alisha mediante un video messaggio: una proiezione affettiva, o meglio, un’archeologia visiva che riassume e rilancia l’immaginario pixariano (da Up a Wall-E) in chiave fantascientifica. Ma anche l’ennesima occasione per ribadire al proprio spettatore questa sua verità di custodia della memoria, un po’ in modo coraggioso con toni profetici, un po’ in modo angoscioso con toni ossessivi, a volte lasciandosi sopraffare dal malinconico, altre volte facendosi rapire dal nostalgico o dall’urgenza di affrontare tematiche inclusive anche a costo di smarrire la propria genuinità.
Ugualmente, risulta meno imprevedibile di quanto sembri il cambio di passo del personaggio di Buzz, totalmente in linea con la poetica e la politica pixariana. Lo space ranger è al centro di una vera trasformazione che lo conduce a smettere i panni dell’eroe invulnerabile, individualista, egocentrico, macho e messianico per diventare un soggetto della comunità, inclusivo, capace di condividere con altri, stringere relazioni autentiche, rispettare le diversità. Da oggetto salvatore dei problemi del mondo a soggetto integrato di quel mondo, sorte toccata a tanti eroi pixariani (da Saetta McQueen a Woody, passando per Bob e Helen Parr) e non-pixariani come insegna (forse in modo ancora più netto) la saga LEGO movie. Un passaggio non scontato, certo, ma non nuovo e non del tutto controllato. Con l’impazienza di dare sfoggio alla sua vocazione citazionista (da Interstellar ad Alien, da Star Wars a Metropolis) e di ripensare, oltre all’immagine politica dell’eroe anche i codici di un genere come la fantascienza, Lightyear stringe su questa densità contenutistica nella seconda parte facendosi fagocitare dalla sua complessità narrativa. Non riesce a trovare il giusto equilibrio emotivo e non sempre innesca i giusti tempi dell’intrattenimento anche a causa di un corollario di spalle, battute e gag non indimenticabili che indeboliscono un progetto quasi del tutto privo di intrepida imperfezione e gustosa autoironia che pare, in più di un’occasione, accontentarsi di volare basso. Tanto che viene da domandarsi come sia possibile che Andy si sia innamorato di questo film. Forse aveva in mente la canzone di Bowie…
There’s a Starman waiting in the sky
Let all the children boogie