The Equalizer 2 - Senza perdono
Il secondo capitolo di Antoine Fuqua dedicato al vendicatore Robert McCall trova nella descrizione del suo personaggio e del suo contesto la chiave espressiva per un sorprendente western urbano.
Il western sopravvive. Anche quando tradotto in atmosfera, ridotto ad un afflato sussurrato o digerito da un altro immaginario, il western resiste appeso a bordo dell’immagine, nel fondo dei corpi incastrati sullo schermo, sul confine di ogni racconto americano, confermandosi il linguaggio comunicativo cinematografico più adatto per raccontare storie di caduta, transizione e risalita.
The Equalizer 2 è prova piuttosto evidente di come il genere sia capace di infiltrarsi e di influenzare anche all’interno del perimetro narrativo di una storia piuttosto lontana dalle ambientazioni della frontiera, pensata in primis secondo i codici strutturali del revenge movie urbano. Il film sul vendicatore interpretato da Denzel Washington, seguito eccellente del primo capitolo sempre diretto da Antoine Fuqua, è raccontato infatti secondo la linguistica espressiva del western, con il tono del crepuscolo, della malinconia essenziale, della sfida esistenziale che si compie all’ultimo momento della vita, quando i muscoli sono macerie da tenere insieme sotto il peso del passato.
La narrazione si impernia sulle azioni del giustiziere Robert McCall, si adagia sulla quotidianità spiegazzata riservata alla sua mente alla fine del giorno, si forma adattandosi sulle sue scelte e rimane ancorata alla direzionalità prefissata: quella di raccontare una vendetta privata che muove dall’amore e trova pace nella morte. Non tutto si esaurisce nello splendido dispiegarsi della diegetica però; la visione del prodotto assemblato dalla sinergia creativa tra la regia di Fuqua e la magnifica interpretazione di Washington è arricchita da un doppiofondo di pregio, quello costituito da un duplice movimento descrittivo. Il film, secondo modalità narrative archetipiche proprie del genere western, è infatti una lunga doppia esposizione, la somma di due immagini speculari, la congiunta rappresentazione di un contesto interiore sofferente, di un contesto esteriore ostile e del loro momento di esplosiva collisione. Il paesaggio mentale del protagonista, il disegno di uno spazio astratto in cui lasciare scogliere la grana dell’affresco psicologico e la dilatazione per immagini del punto di contatto tra il personaggio e il mondo sono quindi le tre controparti espressive di The Equalizer 2.
Il personaggio di McCall è trattato come un cavaliere senza nome, che si aggira nelle geometrie cittadine grazie a un’ombra liquida che condanna e salva sulla base di una logica morale senza soluzione di continuità. La concentrazione della scrittura nel descrivere il personaggio principale (dall’uso del linguaggio del corpo ai processi della mente) è evidente sia quando si pone l’accento su azioni di rilievo marginale sia quando tutto il peso dell’immagine è in funzione della leggerezza dinamica e spaccaossa. Il contesto allo stesso tempo è impostato attraverso contrasti chiaroscurali che, pur allineandosi alle direttive comunicative del cinema d’azione mainstream, si rivelano una chiave di apertura formale delle tensioni interrate nei non detti della trama. Personaggio e realtà di movimento di quest’ultimo sono delineati quindi attraverso i connotati del western: gli atteggiamenti del protagonista sono sintomatici di un cuore partito per una missione definitiva, le atmosfere sono cariche di pulsioni funeree e l’incontro di questi due sensi unici è una strada senza uscita che mette al muro la frantumazione delle certezze.
Il finale del film sigilla la sovrapposizione tra personaggio e contesto. È la sequenza in cui le linee narrative organizzate dentro e fuori la mente del protagonista si annodano per formare un tappeto elastico su cui fare rimbalzare la violenza tanto trattenuta, negata come un entimema da usare solo nel momento necessario. È un momento western puro, in cui l’eroe affronta i nemici nella cornice di un paesino abbandonato simboleggiando una resa dei conti concettuale tra pensiero e realtà, passato e presente, vita e morte. Il genere - suggerito, corteggiato, accennato con dei toni di portata minima per tutto il film - fiorisce assieme allo schioccare dei proiettili nell’aria, si rivela per aggregazione di dettagli in una densa resa dei conti con lo spettatore. Il fiato è trattenuto fino a quando non è rilasciato e il risultato è uno spettacolo da cui si esce irrobustiti, consapevoli non dell’unicità dell’esperienza, bensì della sua intensità, della sua concentrazione equilibrata e feroce. Attraverso la forma del cinema d’azione, il western così sfonda le pareti della contemporaneità e, rinforzando col peso del fuoco la filigrana polverosa del suo codice, vive.