La pandemia ci ha cambiati tutti. Ma che potesse cambiare anche il cinema di Judd Apatow era un effetto collaterale davvero imprevedibile. Anzi, forse ora più che mai ci saremmo aspettati da lui un abbraccio (o almeno un pugnetto, un tocco di gomito) stretto e solidale.
Invece, dopo il coming of age di King of Staten Island, ispirato alla vita di Pete Davidson, in cui i classici temi apatowiani – come la paura di crescere, il rifugiarsi in un quotidiano rassicurante fallimento anziché esplorare il mondo e rischiare di farcela – si confrontavano con il trauma collettivo dell’11 settembre, Apatow inverte bruscamente la rotta e si sposta nella campagna inglese per una satira feroce che non risparmia nessuno. Forse è proprio questo a spiazzare di The Bubble. Il film, distribuito da Netflix e scritto con la Pam Brady di South Park, taglia i ponti con la commedia romantica e i racconti generazionali al centro delle produzioni apatowiane del decennio, da Trainwreck a Love e The Big Sick, e guarda piuttosto al demenziale dei National Lampoon, contaminandolo con i giochi di specchi del film-nel-film, che prestano il fianco alla speculazione su riferimenti a cose e persone nient’affatto casuali.
Sulla scorta del reale set di Jurassic World Dominion, isolato in un rigido protocollo anti-Covid per portare a termine la produzione, Apatow costruisce la sua bolla per le riprese del sesto – non necessario – capitolo dell’immaginaria saga Cliff Beasts, mettendo pericolosamente insieme una fauna attoriale che va dall’attrice con velleità intellettuali (costretta a riunirsi al franchise precedentemente abbandonato dopo l’insuccesso del suo ruolo da “metà israeliana-metà palestinese”) alla coppia disfunzionale di star che non fa che lasciarsi e tornare insieme, al premio Oscar con problemi di dipendenza alla giovanissima influencer di TikTok, guidati da un regista al suo primo blockbuster – “premio” per aver vinto il Sundance con un film girato con un Iphone 6 – e disposto a tutto, pur di non tornare a vendere piastrelle da Home Depot.
In questa sorta di Overlook Covid Hotel, il film inizia a giocare d’accumulo snocciolando una sequenza infinita di gag da quarantena che non sembrano neanche voler essere divertenti ma raccontare, piuttosto, il vuoto e la sospensione di questi anni Venti, nei quali la pandemia ha giocato il ruolo di un acceleratore di particelle.
Nella bolla si diventa egoisti, si diventa brutti. E tutti siamo stati racchiusi per due anni nelle nostre piccole bolle private. Apatow racconta la propria, quella di uno show biz chiaramente in crisi, con i suoi protagonisti attaccati a delle corde, marionette sospese a mezz’aria davanti a uno sfondo inesistente, smaterializzato.
In atto di insolita ferocia per il suo cinema familiare e umano, li fa addirittura vomitare uno sull’altro, morire e ritornare in vita come dei cartoon nella lunga, quasi sfiancante, sequenza dell’overdose da rianimare con ogni mezzo possibile.
Improbabili balletti su TikTok, festini drogherecci, amputazioni, litigi, tradimenti: non si ride nella bolla e quando accade si tratta comunque di una risata dal retrogusto amaro. Per la prima volta nella sua filmografia da regista e produttore, Apatow sembra non provare affetto per i suoi personaggi ma ritrarre una Hollywood da rehab, popolata di volti che durante la pandemia, tra video domestici di bassa qualità e dirette non richieste, hanno smarrito l’allure divistica dimostrando davvero di non essere più “il club cool”, per dirla con il lucido commento di Jim Carrey sull’isteria degli ultimi Academy Awards.
E se Hollywood non è più Hollywood anche il film non è più un vero film: tra il reality show e il gioco da tavola, Apatow elimina senza preavviso i suoi concorrenti: nella logica ferrea del franchise, gli attori che non ce la fanno vengono rimpiazzati in post-produzione - perfino l’amata Leslie Mann! – e nessuno è indispensabile se non il profitto, come ribadiscono i dirigenti degli Studios collegati in video da paradisi terrestri Covid-free.
Duramente criticato dai recensori americani, con una media voti tra le più basse per un autore solitamente molto amato, The Bubble è una commedia che non fa assolutamente ridere. Ma è probabilmente il Don’t look up di Apatow sul mondo del cinema, il suo monito verso un sistema artisticamente e produttivamente in stallo, come gli attori in fuga, bloccati su un elicottero fatto alzare in aria ma incapaci di volare. Spiazzati da questo inedito sguardo apocalittico sul destino del cinema, accusiamo Apatow per averci spacciato un dramma per commedia. Ma come sostiene la cinica studio executive interpretata da KateMcKinnon: blame the game, not the player.