Midsommar - Il villaggio dei dannati
Più commedia indie che film dell'orrore, al secondo film Ari Aster si allontana ancora dal genere, reinterpreta "The Wicker Man" e approda ad una propria rilettura del dramma di coppia
La fretta di trovare nuovi Maestri e rinnovare il volto all'industria cinematografica americana ha già creato tanti paradossi critici, ma la maniera in cui l'ansia da prestazione ha pregiudicato Midsommar lascia veramente l'amaro in bocca. Il villaggio dei dannati (che nulla c'entra con il classico di Wolf Rilla) arriva a un anno dall'acclamatissimo debutto di Ari Aster, quell'Hereditary frettolosamente portato in trionfo quale (ennesima) pietra miliare dell'horror contemporaneo. Il film del 2018 mostrava in realtà una padronanza ancora da trovare (durata fuori controllo, svolte melodrammatiche pretestuose, una certa tendenza a “citare” modelli riconosciuti); ma lo sguardo autoriale c'era già, gelido e cattivo, seppur centrato su un cliché del cinema indipendente americano come quello della dysfunctional family.
Midsommar è il più prevedibile degli atti due: il prodotto di un regista troppo giovane e non del tutto sicuro delle doti attribuitegli, che cerca senza molta convinzione di ripagare aspettative esagerate, finendo per mettere in luce più i propri difetti congeniti che non le nascenti capacità. Queste ultime emergono tra le righe, nei dialoghi e nelle interazioni dei personaggi: non certo nella componente horror, genere che Aster, come molti colleghi provenienti dallo stesso retroterra indie, sembra intendere più come noioso compromesso che come vocazione.
Il resto è un film che dura letteralmente il doppio di quanto regga la magrissima premessa, stira due idee di numero in un processo per accumulo di scenette, e affoga uno striminzito apologo sulle dinamiche di potere nelle relazioni “tossiche” in 150 minuti di ridondante indecisione.
Midsommar, dunque: il festival di mezza estate della comune hippie-pagano-new age di Pelle (Vilhelm Blomgren), che ha invitato il suo gruppo di amici americani a trascorrere lì in Svezia le festività. Giocando con la dramatis personae dello slasher, Aster compone l'organico del gruppo per archetipi, in una costruzione da commedia di caratteri che è sicuramente la parte migliore del film. Al seguito dell'affabile svedese ci sono il nerd serioso (William Jackson Harper), il matto che vuole solo fare sesso (Will Poulter), il belloccio mezzo scemo (Jack Reynor) e la sua ragazza “verginella” e un po' repressa (Florence Pough). Dove il plot andrà a parare Aster non fa nulla per nasconderlo (il film ha anche la bella pensata di auto-spoilerarsi inquadrando ripetutamente in profondità di campo quadri e dipinti rappresentati gli sviluppi della storia – il che per un racconto di due ore e mezza giocato sulla suspense non è il massimo). Più che sull'attesa della violenza, il tutto è centrato sul rapporto tra Dani/Pough e Christian/Reynor. Dani porta dentro di sé un trauma inconcepibile (come già in Hereditary, il dramma viaggia sul crinale dell'autoparodia, con donne che strillano il loro dolore come invasate mulinando le braccia), ed è attaccata a lui come la bambina sola e ferita che in fondo è. Ma Christian è, senza mezzi termini, un cretino, e la disgrazia di questa relazione è il cuore di quella che in fondo non è che una rom-com, appena spruzzata di weird.
Come intuibile già in Hereditary e palesato in Midsommar, ad Aster l'horror sta stretto. Ciò si riflette in un disinteresse totale nei confronti di quel perturbante che dovrebbe muovere il film: i toni sono il bianco e l'azzurrino, la luce dell'estate, il cielo splendente e i grandi prati verdi. Tutto è pulito, illuminato e simmetrico. Persino le minacciose rocce millenarie coperte di rune paiono levigate con la pietra pomice. Non è chiaro se il gioco di Aster sia rivelare l'anima sinistra di ciò che percepiamo come rassicurante (in quel caso non ci riesce), o se, più probabile, semplicemente non si ponga il problema. La sua è una commedia indie, e come tale è fotografata. Più che di Ken Russell, siamo dalle parti del primo Wes Anderson.
In queste vesti, Midsommar dà il suo meglio. Così come Hereditary dedicava il grosso del suo spazio al deteriorarsi dei rapporti interni alla disastrata famiglia Graham, qui è la convivenza forzata a rivelare in tutto il loro veleno le reali dinamiche del gruppo di “amici”. Grande lavoro viene chiesto dunque al cast: Il migliore del mazzo è ovviamente Will Poulter, ma il suo ruolo è marginale; non reggono invece i due protagonisti, troppo incolori per rappresentare quel tormento che, in teoria, dovrebbe animarli, espresso a gran pianti e poco altro. Il film gioca con i suoi personaggi e si avvia, lento lento, a rivelare le sue criticità nel secondo tempo.
Cosa definisce un remake? Oggi la pratica è talmente sdoganata, che decidere se presentarsi espressamente come tale è pura scelta di marketing. Suspiria 2018 sarebbe stato identificato come remake del Suspiria 1977, se avesse portato un altro titolo? Probabilmente no: sono film diversi, opposti, e ad accomunarli c'è solo un blandissimo spunto di partenza. Midsommar, pur guardandosi bene dal rivelarlo, è in tutto e per tutto un remale del The Wicker Man di Robin Hardy. Ne ha l'idea di partenza, lo sviluppo, sequenze e props, e l'intero terzo atto. Si parlava di due idee di numero: se una è il rapporto di coppia che racconta, l'altra consiste nel replicare quanto del film del 1973 deve aver appassionato il giovane Aster. Questa sgradevole tendenza a copiare a man bassa rimane il tratto del regista che meno va giù; ancor più vista l'ingenuità del rifarsi pari pari ad opere arcinote e di pubblico dominio. Se Hereditary era tutto sommato una più raffinata rilettura di Rosemary's Baby (meno il finale ripreso inquadratura per inquadratura dal The Witch di Eggers), qui non ci si preoccupa neanche di rielaborare: Midsommar è Wicker Man e basta, e il generico sottotesto sentimentale rappresenta l'unica pretesa di originalità.
Aster ha dunque molto da dare al cinema, ma forse dopo un film e mezzo ha già dato tutto all'horror. Il passaggio al dramma da camera appare a questo punto come l'unica mossa possibile: abbandonare definitivamente il Genere, per approdare a racconti di coppie in crisi e drammi familiari. Non che finora, in fondo, abbia fatto altro.