Tutti lo sanno
E se un film minore servisse per confermare la grandezza del suo autore?
Sono due gli elementi che avvolgono implicitamente Tutti lo sanno, l’ottavo lungometraggio di Asghar Farhadi e il primo girato in Spagna: il tempo e la voce.
Il primo, il tempo, lo vediamo già contenuto nell’incipit programmatico: c’è un enorme meccanismo, è l’orologio nel campanile di una chiesa, il cui ingranaggio procede ritmicamente per scandire i secondi. Su questo si formano i titoli di testa. Ci dicono che è tutto un dispositivo il cinema di Farhadi, un sistema che nel suo farsi lascia emergere il problema etico e il dubbio morale, il confronto con noi stessi e le decisioni difficili da prendere: cinema che qui assume la forma di una ruota dentata, correlativo oggettivo di un’idea di messinscena, che scatta lentamente, placidamente, e girando segna lo scorrere del tempo insieme alla costruzione dell’impianto narrativo. Nel campanile si ritrovano due personaggi, Irene e il ragazzo del paese, e incidono le loro iniziali sul muro, vicino ad altre iniziali, quelli di due amanti del passato che sono i veri genitori di Irene. L’ambiente è marchiato da un grande orologio di vetro ormai incrinato, con un buco da cui passano gli uccelli. «Qui c’è una vista bellissima», rileva Irene, sbirciando tra le lancette rotte: ecco che il passato tracima nel presente e con esso dialoga in filigrana, da ora e per tutto il film, fino ad emergere in evidenza.
Il secondo elemento si trova nella voce, nel senso più classico del termine, ovvero quello mitologico: la Fama, il mostro con molteplici occhi, orecchie e bocche per vedere, sentire e spargere la voce. È questa che intitola il film: Tutti lo sanno: storia di un matrimonio che viene interrotto da un rapimento. Laura (Penélope Cruz) torna da Buenos Aires alla Spagna per partecipare alle nozze della sorella, nel proprio paese natale nella municipalità di Madrid, un piccolo centro segnato da un vasto vigneto: si porta dietro i suoi figli, tra cui la sedicenne Irene (Carla Campra), e qui reincontra Paco (Javier Bardem), amore di gioventù oggi proprietario di una vigna che proprio Laura gli ha venduto. In un’ampia galleria di personaggi si consuma la festa, che è turbata da un tragico evento: Irene viene rapita dalla sua stanza, nel sonno, da misteriosi sequestratori che scrivono alla madre per il riscatto. Se chiameranno la polizia la ragazza verrà uccisa. Alla luce di un rapimento analogo, concluso con la morte della bambina, i parenti e amici scelgono di non avvertire l’autorità e risolvere la questione in famiglia: per riavere la ragazza bisogna trovare trecentomila euro nel più breve tempo possibile. L’arrivo del marito di Laura, Alejandro (Ricardo Darín), non sblocca la situazione e anzi la ingarbuglia ulteriormente. «Tutti lo sanno», dice il giovane a Irene nel campanile: nel paese è noto che Laura e Paco stavano insieme. «Tutti lo sanno», è la risposta che ottiene Alejandro sulle voci che corrono: tutti sanno che Irene in realtà è figlia di Paco. Ecco perché Paco/Bardem si impegna in particolare per liberare la giovane, fino all’ipotesi estrema di vendere la terra.
Cosa è vero e cosa presunto? Il nodo della relatività del reale, della vera conoscenza che si intreccia alla semplice ipotesi resta centrale e lampante nel cinema di Farhadi. E dunque la costruzione del dilemma etico-morale si sviluppa ancora una volta, dinanzi a un giallo che è tale solo in teoria: basti vedere come l’autore fornisce la soluzione, l’indicazione del colpevole che arriva ben prima del finale e non intacca il tessuto, perché non è quello il nocciolo della questione ma - come sempre - i rovelli interiori dei suoi personaggi.
Perché Laura rivela proprio adesso a Paco che Irene è sua figlia? Oscillazione spontanea dell’animo o tentativo di estorsione sentimentale per ottenere i soldi necessari? Perché Paco sceglie davvero di cedere la vigna, concretizzando una mera possibilità? Avrebbe aiutato un’altra bambina che non fosse sua figlia? E la moglie di Paco, Lea (Barbara Lennie), con il categorico rifiuto della solidarietà assume una posizione cinica o esercita una legittima gelosia? Sono esempi di domande che percorrono il racconto, frammenti di dubbi che si potrebbero applicare anche ad altre figure e scenari (uno su tutti: il primo sospetto sui braccianti, eventuali rapitori, come traccia di lotta di classe). La rilevanza, al solito in Farhadi, abita proprio nella domanda, nel punto interrogativo, nella difficoltà di decidere che tormenta i personaggi e la nostra posizione nel giudicarli. Non è semplice stabilire la legittimità dei loro moti, dove si trova l’autentico e dove l’attentamente costruito: da cosa vengono determinati, amore e sentimento o calcolo e interesse? In tal senso, idealmente separato dal confine tra Iran e Turchia, il suo cinema dialoga a distanza con quello di Nuri Bilge Ceylan: gemmazione di interrogativi, dubbi su dubbi, problemi etici inestricabili talmente tentacolari che mettono in scacco.
Se l’autore turco ha appena firmato un colosso come L’albero dei frutti selvatici, però, l’iraniano nella seconda trasferta della sua filmografia finisce parzialmente incartato. Dopo l’incursione francese de Il passato, l’applicazione spagnola del suo teorema soffre di limiti simili, anche tecnici: Farhadi non parla la lingua degli attori che dirige, e ne risente soprattutto una Penélope Cruz in overacting della sofferenza, così come alcuni malintesi sembravano riguardare Bérénice Bejo nel film precedente. D’altronde il cineasta ha sviluppato la storia partendo da un suo viaggio, ovvero posizionandosi chiaramente nella prospettiva di osservatore esterno: «Sono stato nel Sud della Spagna. In una città ho visto diverse foto di un bambino affisse ai muri. Quando ho chiesto chi fosse, ho saputo che era scomparso e che la sua famiglia lo stava cercando: lì è nata la prima idea del film (...). Ad attrarmi sono state soprattutto il paesaggio e la cultura locale». La traccia etnografica viene apertamente dichiarata, quindi, ma è altrettanto vero che nel disegno narrativo vivono i temi prediletti: il rapporto tra uomo e donna e la possibile resistenza del sentimento dopo la rottura; il peso del passato che ritorna con forza nel presente; l’improvvisa scomparsa di una figura femminile che costringe a riconsiderare le proprie posizioni, come accadeva alla giovane maestra di About Elly, film in odore de L’avventura di Antonioni; in generale il confronto necessario con noi stessi, complesso e crudele, cosa vogliamo ottenere e a cosa siamo disposti a rinunciare nel rapporto con l’altro, in un concetto che avanza in modo graduale ma inesorabile.
Già magnificato dalle sue perle, come Una separazione e Il cliente, il metodo Farhadi si dispiega qui altalenante e conferma il sottile equilibrio richiesto dal suo fare cinema, che può perdersi e trovarsi anche per un solo dettaglio o sfumatura: così è nei lunghi confronti tra Bardem e Cruz, che a volte restituiscono la gradualità dell’elaborazione morale e altre sfociano nella semplice scenata. Così nei video del matrimonio, che i personaggi guardano e riguardano in cerca di un indizio, provando ad aprire un discorso ottico interessante ma troppo vago per incidere. E così anche nel finale, affidato ancora ad una donna farhadiana che mette ordine e assume la posizione “giusta”, ma risolto nell’arco di una scena con sintesi perfino eccessiva.
Tutti lo sanno è un cosiddetto “film minore”? Certamente sì. Ma è anche la prova che conferma la strategia a orologeria di uno dei maggiori autori del contemporaneo: e torniamo allora all’apertura, alla ruota che scatta implacabile come il meccanismo di Farhadi, in una consapevolezza dello sguardo che molto cinema di oggi non vede da lontano.