Harvest
Il quarto lungometraggio di Tsangari propone un ritratto radicale delle trasformazioni a cui l'industrializzazione ha assoggettato il binomio uomo-natura, malgrado rischi spesso di cadere in una retorica eccessivamente reazionaria.
L'uomo e la natura. È a partire da questo binomio, dalle trasformazioni che hanno rivoluzionato nel tempo le modalità con cui l'individuo si è approcciato all'ambiente naturale, che potremmo rileggere l'intera storia dell'umanità, e delle evoluzioni (culturali, sociali, politiche) su cui si è fondata la modernità che tutti noi conosciamo. Se in periodi preindustriali l'essere umano ha cercato a lungo di convivere con lo spazio che lo circonda, tentando di volta in volta di dominarlo secondo esiti e metodologie differenti, è con l'arrivo dell'industrializzazione che il legame tra le persone e l'orizzonte naturale ha mutato profondamente di segno, con i primi che sono arrivati a individuare le formule con cui sfruttare, anche e soprattutto in termini capitalistici, gli spazi naturali. Ed è proprio in queste due cornici opposte – dove la simmetria del rapporto uomo-natura, nel primo caso, denota ancora un equilibro, mentre nel secondo tende a favore dell'essere umano – che Athina Rachel Tsangari declina i due macro-atti di Harvest.
Presentato in Concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia, il quarto lungometraggio della regista greca si muove costantemente su due binari interagenti e mai incompatibili, nonostante l'enorme salto di paradigma che separa le due metà della storia. Nell'incipit del film, così come per il resto del primo segmento narrativo, è l'assoluta sovrapponibilità delle esperienze di individui appartenenti a una comunità agreste agli albori dell'industrialismo inglese, e l'ambiente in cui non solo vivono, ma al quale delegano le loro stesse esistenze e personalità, ad assurgere a centro tematico della narrazione, nonché a punto di contatto tra lo spazio e le traiettorie del protagonista. Walter (Caleb Landry Jones) è di fatto un forestiero, ed essendosi integrato anni prima in questo villaggio ubicato in un non precisato luogo delle terre anglosassoni, condivide le stesse liturgie dei suoi omologhi. Ogni giorno lo trascorre nei campi, tra trebbiature di stagione e altre attività agricole. E finché il mondo (diegetico) di Harvest non viene contaminato dalla presenza di agenti “esterni”, ecco che l'uomo può contaminarsi organicamente con gli spazi bucolici del villaggio, quasi fosse un elemento intrinseco della natura. Ma è nel momento in cui l'orizzonte “atavico” in cui si muovono i protagonisti accoglie l'arrivo del legittimo (e capitalistico) proprietario del terreno, Master Jordan (Frank Dillane) che la storia si innerva di connotazioni inedite e “eticamente e moralmente umbratili”, facendo di conseguenza implodere il rapporto d'equilibrio fino a quell'istante esistito tra Walter, l'amico e pastore Master Kent (Harry Melling), e la cornice naturale che abitano, fino a porre fine alla loro (immacolata) esistenza.
Ciò che sorprende di Harvest, soprattutto nella sezione iniziale del racconto, è la capacità di Tsangari di posizionare il personaggio di Walter sullo stesso piano della natura, sia dal punto di vista iconografico che esistenziale/ontologico. Il protagonista, del resto, sembra trovare una sua vitalità solo perseguendo questo rapporto fisico con l'ambiente che lo circonda, a cui la cineasta riesce a restituire anche una connotazione puramente materica e tattile. E nonostante nella seconda metà del racconto, quando cioè Master Kent porta in quel luogo incontaminato i (dis)valori del commercio e dell'imperante industrializzazione, si assista a un salto di paradigma evidente nel trattamento dello spazio naturale – ora innervato di sfumature pre-capitalistiche che ne determinano la dissoluzione anticipata del suo sistema socio-umano – il film riesce comunque a rendere organica questa transizione tematica, senza porla in discontinuità con le visioni e gli intrecci proposti per tutta la sezione iniziale del lungometraggio.
Per quanto, però, Harvest non risulti mai incongruente né discordante nelle sue due anime narrative, anche – e soprattutto – dal punto di vista tonale e dei registri adottati, è pur vero che il racconto, nell'istante in cui mette in scena lo scontro tra i principi conservatori (rappresentati dalla natura incontaminata) e le logiche progressiste della modernità, disperde quel rapporto organico tra Walter e l'ambiente naturale su cui si è fondato tutto lo spessore della storia, nonché la caratterizzazione del personaggio. E seppur il protagonista continui a configurarsi alla stregua di uno “spettatore passivo”, incapacitato a intervenire su eventi che non può controllare per la posizione subalterna che ricopre nel (suo) minuscolo mondo, ogni qualvolta il racconto si estrania dal percorso del personaggio, per raccontare l'implosione della microsocietà in cui vivono i contadini, rischia di cadere in una retorica eccessivamente reazionaria, sotto il cui peso viene schiacciata ogni idea o riflessione avanzata dalla regista nell'epilogo.