I morti non muoiono
Dietro lo zombie movie più serafico della storia del cinema, Jarmusch racconta la crisi di un'industria culturale che divora sé stessa, naturale continuazione dei morti-in-vita che circondano i vampiri innamorati Adam ed Eve.
I morti non muoiono è probabilmente lo zombie movie più serafico della storia del cinema, una nuova decostruzione del genere da parte di Jim Jarmusch che accantona il romanticismo dei suoi ultimi, splendidi, film (Solo gli amanti sopravvivono e Paterson) per riflettere divertendosi sullo stato della cultura occidentale. The Dead Don’t Die – come canta in allitterazione la canzone tema e titolo del film, scritta dal musicista country Sturgill Thompson e calata nel mondo diegetico del racconto – è infatti un horror popolato sì da cadaveri ambulanti in cerca di carne fresca ma soprattutto da personaggi compassati, eccentrici ma sempre controllati; esclusa la poliziotta interpretata da Chloë Sevigny (l’unica che reagisce alla situazione con l’incredulità e la disperazione che potrebbe provare lo spettatore), tutti i personaggi dimostrano distacco o indifferenza nei confronti di quest’invasione di non morti, come se fossero già rassegnati alla fine – anche quando la consapevolezza della loro sorte deriva dall'aver letto in anteprima, metacinematograficamente, tutto il copione del film.
Mettendo in scena personaggi già arresi e svuotati di vita, Jarmusch gioca con la materia orrorifica e come in passato ne rivisita la tradizione, impossessandosi degli ingredienti di base per reinterpretarli con i suoi tempi, canoni e giri a vuoto, con il suo umorismo sempre situazionista. Sarebbe un peccato però limitarsi a vedere I morti non muoiono come un grande divertissement realizzato assieme agli attori amici di una vita; il film è certamente anche questo, e diverte parecchio nell’esserlo, ma sotto la superficie del gioco Jarmusch rilascia un’amarezza nient’affatto scontata che merita un secondo livello di lettura.
I morti non muoiono sfrutta il tema zombie per tornare a parlare di decadenza e crisi della cultura occidentale, la stessa che Jarmusch aveva posto al centro di Solo gli amanti sopravvivono, e nel farlo si ricollega, testualmente, al padre di tutti gli zombie, Romero, i cui figli mostruosi vengono oggi talmente reiterati dal cinema e dall’industria dell’intrattenimento da essersi svuotati di ogni carica politica. Per Jarmusch il potere eversivo dello zombie è soffocato dalla ripetizione a tal punto che della sua forza simbolica resta soltanto la retorica finale esplicitata dall’hobo di Tom Waits, sfacciata verbalizzazione di un messaggio un tempo sotterraneo e ora talmente depotenziato da non poter supportare alcuna metafora.
Di conseguenza gli zombie di Jarmusch non possono che essere macchiette di sé stessi, ritornanti ossessionati da bisogni consumistici aggiornati a questi tempi chimicamente tormentati. I nuovi oggetti del desiderio sono Wi-Fi, caffè, benzodiazepine e narcotici, ma nonostante l'apparenza, le citazioni, la morale didascalica, questi morti viventi non sono più, o almeno non solo, quelli che assaltano il centro commerciale nel secondo capolavoro di Romero: in quel gioco a carte scoperte che è ormai il genere horror, lo zombie di Jarmusch non esemplifica più l’uomo mercificato del tardo capitalismo quanto la morte-in-vita dell’industria culturale nel suo complesso. Siamo oltre ogni intento sociopolitico, talmente ovvio da poter essere sorpassato, sbeffeggiato, esplicitato sfacciatamente, perché mentre il genere si ripete fagocitando sé stesso l’esercizio culturale ha una sola via di fuga, che risiede (come sempre in questo cinema) fuori dall’industria, fuori dal sistema. L’unica cura per una cultura che trasforma le sue icone in feticci, nutrendosi di sé e delle sue scorie, sta nell’indipendenza e nella vita artistica fuori dai margini, una prospettiva incarnata dalle uniche figure che sopravvivono alla mattanza zombie del film: le nuove generazioni dei ragazzi in riformatorio, l’aliena proveniente da mondi lontani (la Scozia?) e il barbone alla Thoreau che vive nei boschi.
Solo gli amanti sopravvivono lo diceva già con chiarezza assumendo la prospettiva del vampiro, un non morto in realtà vivo e dolente in un mondo di zombie condannati alla vera morte-in-vita dal solipsismo e dall’assenza di umanità e cultura; praticamente, «io sono vivo, voi siete morti», citando la più famosa frase di Philip Dick. Gli zombie che infestano I morti non muoiono quindi non sono altro che le scorie di umanità che già popolavano il film precedente, poste adesso al centro della scena e raccontate con irresistibile ironia.
In conclusione, I morti non muoiono è un film più leggero e divertito dei titoli precedenti, ma questo non può andare a suo discapito o, peggio, non può allontanarci da quello che è il suo discorso di fondo, coerente e tutt’altro che nuovo per Jarmusch ma di certo non superficiale o buttato via. E cioè che il cinema (e la cultura occidentale con lui) ha bisogno di amanti e sangue fresco, indipendenza e innocenza, mentre la rassegnazione, l’odio, il dolore e il distacco non possono che soccombere sotto le fauci plastificate di un’industria davvero mostruosa e bramosa di carne.