In the Basement
L'austriaco Ulrich Seidl torna alla Mostra due anni dopo Paradise: Faith con un documentario radicale che farà discutere
Davanti all’ultima opera di Ulrich Seidl, che torna al documentario dopo il successo della trilogia Paradise, viene spontaneo domandarsi non tanto cosa voglia dirci – il messaggio è esposto con chiarezza cristallina, le cantine come luogo oscuro dello spazio abitativo, dimora della paura e delle aberrazioni, con tutto quel che ne consegue – quanto piuttosto cosa voglia dirsi, qual è in sostanza l’orizzonte morale che governa e sostiene il suo sguardo? Il mondo dei suoi film è uno dei peggiori possibili, se non il peggiore tout court. È dominato dalle pulsioni più estreme e abitato da corpi grotteschi, talvolta mostruosi, incatenati al circolo ossessivo del godimento – quasi sempre iscritto in una sadica ripetizione rituale che nega l’appagamento – o della sopraffazione. Siamo oltre l’abisso: non c’è redenzione ma solo l’ostinata reiterazione di gesti meccanici che non tradiscono emozioni, se non un certo malsano compiacimento nell’esposizione di sé. Come in una delle primissime scene del film – un uomo che assiste soddisfatto il suo pitone mentre divora un topo, a suo modo una dichiarazione d’intenti e di poetica – non c’è via di fuga dalle inquadrature-gabbie che l’autore costruisce attorno ai corpi dei suoi personaggi, che impassibilmente si mettono in mostra come animali in uno zoo. E per estensione non c’è via di fuga dal mondo asfissiante di Ulrich Seidl, tutto si ripete quasi sempre uguale con sottili e impercettibili variazioni sul tema.
Dall’altra parte del campo gli spettatori sono a loro volta costretti a fissare in tutto il suo squallore quotidiano un campionario di bizzarrie sessuali e antropologiche da bestiario umano. Come se fosse un catalogo di etologia il cinema di Seidl accumula gli scarti dell’immaginario borghese per mostrarci i lati più oscuri e intollerabili del vivere, ovvero tutto ciò che le società occidentali tengono ben lontane dalla vita pubblica e dai mezzi d’informazione, almeno fino agli epiloghi più tragici o sensazionalistici. In quest’ultimo film troviamo, tra gli altri, un musicista alcolizzato e nazista che ha adibito la sua cantina a mausoleo del Terzo Reich; uno schiavo che ama farsi umiliare in ogni modo dalla sua padrona; una masochista che collabora con un’associazione che è contro la violenza sulle donne; un collezionista di animali impagliati; un appassionato di lirica e pistole; una signora che ogni notte si aggira nella sua cantina accudendo amorosamente la sua bambola come fosse sua figlia; un erotomane con la passione per le prostitute; e poi ancora uomini e donne di ogni età ed estrazione sociale colti nell’espressione di hobbies di qualsiasi tipo, dai trenini elettrici alla musica, dalla radio al consumo di droghe e alcol. A fare da collante ai diversi frammenti c’è la solitudine: i personaggi di Seidl sono sempre soli, anche quando sono in gruppo o hanno una famiglia. La cantina in questo senso risulta perfetta come metafora dell’isolamento dell’uomo, carceriere di se stesso. Non a caso il film si chiude sull’immagine di una prostituta mentre cerca la posizione più comoda, o forse la più umiliante(?), dentro una piccola gabbia di ferro. Dopotutto, come avevano mostrato gli importanti Import/export e Paradise: Love, nel cinema di Seidl il movimento dei corpi nello spazio risponde quasi sempre più che alle leggi della fisica a logiche economico-mercantili, i corpi come merci e beni di consumo da importare – esportare al di là e al di qua dei confini. In quest’ultima scena il corpo della prostituta sembra offrirsi non solo come preda e animale da esposizione ma soprattutto come merce già impacchettata e pronta per essere commerciata.
Apparentemente il cinema dell’austriaco Seidl, e in particolare quest’ultimo tassello, sembra posizionarsi appena un passo prima del disperato testamento pasoliniano di Salò, ovvero a quella rappresentazione di corpi destinati all’annientamento, alla sopraffazione, alla lenta ed inesorabile erosione. I presunti piaceri della carne assumono in Seidl l’immagine deformata di un incubo grottesco – come nelle sequenze con lo schiavo, che si offre di pulire pavimenti, superfici e genitali con la lingua – dove sovente fa capolino la risata, schermo protettivo di cui si serve tanto il regista quanto lo spettatore per mantenere il distacco da una narrazione che altrimenti risulterebbe intollerabile. In sostanza non c’è quasi mai un’azione coercitiva: i suoi personaggi sono schiavi solo di loro stessi e delle loro manie. Il filtro grottesco non è che una logica conseguenza di questo stato di cose. Si diceva di Salò: i film di Seidl sembrano fermarsi un attimo prima, non c’è quasi mai la messa in scena della morte. La vita è la morte al lavoro ogni giorno, ogni minuto, ogni istante. L’assenza di una fine vera e propria non fa che rilanciare l’idea di una serie infinita di morti, come sognavano i quattro potenti del film pasoliniano: non una ma infinite volte. Nel cinema di Seidl si muore tutti i giorni senza morire mai. Eppure è negata persino la disperazione, non c’è niente di tragico o epico nelle sue storie, solo banali scenette di ordinaria follia. Ma dove finisce l’espressione della libertà personale e dove inizia la schiavitù del mercato e del desiderio? Possiamo definire i personaggi davvero liberi rispetto sia alla società che abitano sia al cineasta che li filma? E ancora: quanto c’è di anarchico e anti-borghese nel cinema che li mette in scena? O al contrario quanto, piuttosto, di vuoto nichilismo o peggio ancora di moralista? Ed infine: dove si pone il punto di vista del regista? Al di qua o al di là della macchina da presa? I suoi attori sono solo oggetti da sfruttare per scandalizzare lo spettatore medio oppure espressione di una lucida follia che mette in discussione tutti i nostri parametri, compresi quelli dell’autore? Malgrado le tante contraddizioni del cinema di Seidl risulta innegabile come sia proprio la sua natura ambigua a renderlo un oggetto affascinante e particolarmente complesso nel panorama del cinema contemporaneo. Se In the Basement ha un merito al di là dei tanti, evidenti, limiti, questo risiede negli innumerevoli interrogativi che suscita durante e dopo la visione. Comunque la si pensi su Seidl, non si può non riconoscerne la carica eversiva che attraversa le sue immagini e che continua, film dopo film, a non lasciare indifferenti.