Bone Tomahawk
Solo apparentemente sulla falsariga di un Green Inferno ai tempi della frontiera, l'esordiente Zahler mette in scena un western cannibale con un redivivo Kurt Russell.
Di tutte le contaminazioni possibili tra generi differenti, forse la più infelice e fallimentare resta quella che ha tentato, con scarso successo, di unire il cinema western alle suggestioni di certo horror. Dagli scadenti b-movies del passato fino a prodotti più recenti mai del tutto riusciti (vecchio di qualche anno l’esito incerto di The Burrowers), passando per qualche clamorosa eccezione (vedi, con tutti i distinguo del caso, Carpenter), pare che questo esercizio di ibridazione spesso e volentieri abbia trovato una certa resistenza proprio quando da pervertire e modellare era un genere solido e granitico come il western.
Sicuramente non si è lasciato intimorire da queste premesse l’esordiente regista S. Craig Zahler che, con un cast di tutto rispetto a disposizione (tra cui figurano più di un paio di interpreti spiccatamente di genere), confeziona forse uno dei migliori prodotti nati da questa infelice tipologia di mash-up.
Bone Tomahawk non è la discesa di un western nelle trame folli e mefitiche di un horror, un Dal tramonto all’alba con tanto di brutale e tagliente cambio di registro tra un tempo e l’altro, o un rozzo lavoro di cucito dove a un film dagli echi fordiani si sostituisce, repentinamente, un orrore antropofago alla Cannibal Holocaust; è piuttosto un western di stampo rigorosamente classico che nella sua forma fortemente codificata e pressoché immutabile sa accogliere, senza stravolgimenti sostanziali, le infiltrazioni dell’horror più truce e granguignolesco.
Col cinema western del periodo d’oro ben in mente, su tutti il modello fornitogli da Sentieri selvaggi, Zahler mette in scena il lungo (forse troppo) e sfiancante viaggio di quattro uomini sulle tracce di una giovane donna rapita da una mostruosa tribù di voraci cannibali.
Come da migliore tradizione sono i personaggi, qui, a fare la differenza, a dipingere un mondo di sfumature e valori costantemente in lotta tra loro, dal risoluto sceriffo di un Kurt Russell mai così in forma da tempo, alla folle tenacia di un marito zoppo (Patrick Wilson) pronto a tutto pur di salvare la moglie, passando per un immancabile pistolero sbruffone (Matthew Fox) e un perfetto Richard Jenkins nei panni stranianti di un vice sceriffo vecchio e logorroico.
E seppure, alla resa dei conti, superato il cerchio rituale ed entrati in un mondo fatto di creature antropofaghe che comunicano mediante apposite branchie (?), gli elementi per trovarsi di fronte a un’ulteriore, nuova degenerazione del cannibal movie alla Eli Roth parrebbero esserci tutti, non è sul (facile) solco di Green Inferno che vuole adagiarsi Zahler.
Dilatando tempi e spazi, adottando un respiro della narrazione vasto come i paesaggi che fotografa, il regista costruisce la sua storia all’interno del più tipico e, perché no, stereotipato immaginario di genere introducendo, in un climax di pericolo costante e incombente, elementi di puro splatter senza per questo mai arrivare ad alterare la propria visione di fondo, il proprio ritmo solenne, implacabile e beffardo. Una visione che si riflette in uno sguardo rigoroso, a tratti cinico, intriso di un umorismo nero che permea l’intera pellicola, capace di gestire al meglio tanto dialoghi e personaggi, quanto le scene più crude in un crescendo sadico che in quanto a messa in scena dell’orrore nulla ha da invidiare al più sanguinario film di exploitation.
Certo, le perplessità non mancano in questa avventura disillusa e distaccata spesso (e, il più delle volte, coscientemente) ai limiti del ridicolo, eccessivamente stirata e dilatata, forse, eppure con un rigore di fondo capace di evitare ogni frammentarietà stilistica ed espressiva, qualsivoglia zavorra autoriflessiva sul proprio statuto di ibrido, colorando il tutto della patina opaca e rarefatta di un western godibile e fuori dal tempo.
Che poi, dentro, ci siano anche dei cannibali, tanto meglio.