1545. Relay #70 Panel F (moth) in relay.
First actual case of bug being found.
Nonostante sia risaputo che il termine bug sia stato utilizzato fin dall’ottocento per indicare un qualche tipo di malfunzionamento tecnico, la storia dell’informatica ha continuato a tramandare l’aneddoto del tenente Hopper, il quale, alle prese con un difettoso prototipo di computer, appuntò nel 1947 su un registro – ancora conservato in un museo di storia americana – il primo rinvenimento di un insetto all’interno dei circuiti elettronici, la cui intrusione aveva determinato il guasto prima inspiegabile dell’apparecchio. In fondo, come direbbe Nucky Thompson, “mai lasciare che la realtà rovini una buona storia”, e così è a quell’accadimento – avvenuto negli anni in cui i computer occupavano ancora stanze intere – che si fa risalire spesso il doppio significato del termine bug nella lingua inglese: insetto, o anche errore di sistema. Anomalia di un processo altresì meccanico. E seguendo l’esempio degli storici dell’informatica faremo bene anche noi a rimanere fedeli a tale accadimento, perché è proprio sulla doppia valenza del termine bug che è costruito per intero il film di oggi, Bug – La paranoia è contagiosa, penultima opera del redivivo William Friedkin. Entrambi i film sono tratti da piéce teatrali del drammaturgo Premio Pulitzer Tracy Letts, che si è occupato anche del loro adattamento, e dall’esito che il lavoro congiunto dei due artisti ha avuto in questo Bug non resta che attendersi grandi cose dal film in concorso al festival.
Girato nel 2006 e presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes di quell’anno, Bug – La paranoia è contagiosa ha mancato da noi l’uscita nelle sale per giungere direttamente sul mercato degli homevideo; magra consolazione per un film che, oltre a segnare il ritorno in grande stile di uno dei maestri del nuovo cinema americano, si è rivelato come una delle più fulminee vivisezioni dell’America di oggi, racconto di estrema lucidità e follia. Del resto non riesce difficile immaginare cosa abbia spinto il regista de L’esorcista a trasporre un’opera teatrale talmente gravida di assonanze con il suo cinema, fin dalla struttura di partenza del dramma da camera. A parte un paio di altre location infatti, Bug è interamente ambientato nella stretta, squallida stanza di un holiday inn, una camera di motel che diverrà nel corso d’opera sede di fecondazione e gestazione di una follia paranoide, utero apparentemente protettivo – in realtà imprigionante – di un’allucinazione individuale e sociale. Vittima di questa deriva è la sbandata Agnes (Ashley Judd, qui una rivelazione); la donna, cameriera in un pub, vive sola tra alcol e droghe dopo aver subito la scomparsa del figlio piccolo – sparito da un giorno all’altro – e la difficile separazione dal marito violento, che ancora la perseguita. In questo contesto di dolore ed estrema solitudine arriva Peter (Michael Shannon, la faccia più inquietante di Hollywood), sconosciuto presentatogli da un’amica che la malinconica Agnes accoglie in fretta nella sua vita. L’uomo però rivela ben presto un comportamento che da particolare si fa paranoico: inizia a confessare ad Agnes un passato di misteriosi esperimenti militari, mentre invisibili e parassitari insetti – afidi, pidocchi delle piante – si insinuano nella camera della donna e sotto e dentro i corpi dei due, ora amanti. La caccia a questi fantomatici insetti – che nessuno, neanche lo spettatore riesce a vedere – assumerà i caratteri della schizofrenia allucinatoria, una follia portata da Peter che trova in Agnes terreno fertile per svilupparsi ed evolversi; la paranoia sconvolgerà così in pieno i due protagonisti – intrappolati in una camera ormai asettica e algida, avvolta da carta argentata e luce azzurrina – conducendoli ad atti di scarnificazione e selvaggia amputazione, in cerca dei nodi sotto la pelle, delle sacche di uova dentro la carne.
La prima cosa che sorprende nella visione di Bug è che, fin dalle scene iniziali, ci pare di esser di fronte al film di un esordiente, o comunque di un regista giovane. Con questo non si intende che il film riveli una mancanza di mestiere, anzi tutt’altro; quella che abbiamo davanti è una vera esplosione creativa, un linguaggio cinematografico rabbioso e allo stesso tempo estremamente calibrato e controllato, spietato eppur glaciale, sorprendente per un regista sessantenne che non aveva certo emozionato con le ultime opere. Fin dalla ripresa in wescam iniziale, che cala sulla casa di Agnes come la lente d’ingrandimento di un microscopio, Friedkin costruisce un discorso filmico di ferro, che si incastra alla perfezione non solo con la sceneggiatura e i suoi sottotesti, ma anche con la fotografia e l’asciutta scenografia, curatissime in questo spazio ristretto. Evadendo dalla logica del campo-controcampo, il regista ricorre ai giochi di fuoco, al jump-cut, alle riprese lunghe che esaltano le ottime prove d’attore dei due straordinari protagonisti.
Eccoci quindi alla chiave di volta di Bug, la dimensione sociale della follia. Se non considerassimo quest’aspetto, evidenziato dal titolo stesso, Bug potrebbe apparire come un film alla Polanski per la paranoia e gli ambienti, o alla Cronenberg per l’esplorazione e violazione del corpo. Se gli altri due maestri sono sicuramente presenti nelle loro suggestioni, l’opera di Friedkin-Letts viaggia esplicitamente e furiosamente su un piano storico e sociale inedito rispetto a questi punti di riferimento, almeno a tale livello di esplicitazione. Rivelatorio a riguardo come il film non giochi mai sull’ambiguità del reale e della sua percezione, evitando di far precipitare lo spettatore in una crisi conoscitiva per relegarlo anzi ad osservatore scientificamente distaccato, spettatore di un freddo esperimento di laboratorio. In questa definita dimensione sociale – quindi non mentale in realtà – il personaggio di Peter è senza ombra di dubbio il vero bug, ovvero l’errore, il malfunzionamento del sistema, capace di infettare la struttura nella quale si trova ad agire date le condizioni in cui essa versa. Se Peter è la scheggia impazzita Agnes è quindi la società tutta, o meglio l’America, o meglio l’America del post-11 settembre, un paese ancora traumatizzato e shockato, disposto a seguire qualunque guida indichi una seppur minima via di uscita. Il punto centrale di questo lavoro è la facilità con la quale Agnes non solo si accodi ma finisca per rilanciare le allucinazioni paranoiche di Peter; il suo cedere al contagio – e si noti al riguardo come Peter riesca a scalfire i primi dubbi della donna ricorrendo a parole colte e ricercate, agli strumenti della conoscenza e del linguaggio – manifesta il pericoloso stato di crisi di un paese disposto a mettersi nelle mani di chiunque purché le cose inizino ad avere un senso. A far crollare definitivamente Agnes è proprio il momento in cui Peter con i suoi deliri giustifica anche la sparizione del figlio della donna, di fatto assolvendola.
In questo processo di scarnificazione di un paese Friedkin e Letts costruiscono quindi un film a tesi preciso al millimetro, che ha l’ulteriore pregio di mantenere intatta la propria carica narrativa e visiva nonostante la forte programmaticità dell’operazione; una follia pulsante e viva quindi, capace di introiettarsi nella mente dello spettatore. Dove in realtà già c’è, sepolta sottopelle come le uova di un afide.