La vita è un tiro di dadi. Capo nord. Scintille di esistenza, aspettando di crescere. Meteore di vita, come segnali da un futuro lontano. Capo nord. Con Napoli nel cuore e in tasca il colpo della vita. Ad Amburgo. Forse. Ma la realtà sta lì, a dire che no è così. Non è così facile quando non sei del mestiere, quando non sei stato poco a maneggiare. E allora via. Si azzera il conta km, si da una passata di cancellino sulla lavagna. Tutto da riscrivere tutto nuovo tutto da rifare. Si ma dove? A Copenaghen o Oslo? Il treno sta lì. Sta pronto per partire. Dai che c’è la linea d’ombra da varcare. dopo tutto sarà diverso. Dove si va? Quanta adrenalina scatena questa domanda – soprattutto se non si è da soli – La lontana Norvegia. Il settentrione d’Europa che di più non si può. Ma sì, si va lì, così si dorme un po’ di più, che questi binari non finiscono mai, tanto peggio di così non può andare. E allora eccoli, i nostri quattro guaglioni dei vicoli partenopei, Francesco Genny Ettore e Fofò, lì, a inventarsi una vita fatta di microfurti e lavori in nero col martello pneumatico in mano e la discarica alle spalle. Perché a qualsiasi latitudine tu possa trovarti e di qualsiasi nazionalità tu sia, se non tieni le spalle coperte e un mestiere in mano, è questo quello che ti spetta, altro che Lampedusa, altro che raccogliere i pomodori a Foggia o le arance a Rosarno. E in mezzo una vita. Norvegese. E mediterranea. Controcanto e controcampo di un mondo non ancora troppo globalizzato. Fatta di crudezza e di alcolisti, di vecchie bagasce consumate e cielo argenteo che il sole sembra non essere stato creato lassù – se non a mezzanotte – di malinconici complessi rockabilly alla Kaurismaki ed Ex-Yugoslavi senza scrupoli. Capo Nord. Più su di lì non si può andare. Così dice Lawrence, prima di finire male. E’ lassù che voglio andare, dice, ed è lassù che ci porta Carlo Luglio con questo suo esordio alla regia, che nel 2002 gli valse il premio opera prima.
Esperimento riuscito in parte e a tratti convincente soprattutto per una musica incalzante e adatta alle immagini, e la lente d’ingrandimento posta spesso sulla condizione dei migranti. La troppa voglia di narrare e mostrare finisce per perdersi nei luoghi più che nei personaggi. Malgrado una regia asciutta e una fotografia molto ricercata e giusta, Capo nord risente dei suoi troppo importanti interrogativi che si pone all’inizio e lascia lì per strada dopo aver a fatica costruito un film generazionale e di formazione come onestamente se ne son visti pochi all’inizio del primo decennio di questo nuovo secolo: Come si fa? La vita come si fa? Chi te lo dice, la porta da aprire qual è? Nessuno, ovviamente. E quindi giù a sbagliare, a perdersi, a ritornare, giocare a fare gli adulti quando si hanno solo diciannove anni. Troppo pochi per non bruciarsi e sentirsi un pallone perso, per portarsi dentro, addosso un segreto inconfessabile. M abbastanza per innamorarsi e aggiustare il tiro però. Aspettando che un tiro di dadi faccia 12.