L'hotel degli amori smarriti
Chambre 212: nella testa di Maria si affastellano simboli, amori passati e attuali, tutti si ritrovano con lei dall’altro lato di Rue Delambre, dove si erige l’Hôtel Lenox. Tra luci al neon e teatro espressionista, Honoré omaggia (anche) l’amore cinefilo.
«L’amore è costruito sempre sulla memoria». L’amore al presente non esiste. O, semplicemente, vive in funzione di un “allora”. Così i frammenti di una lezione amorosa di eco barthesiana scoppiano nei discorsi e negli sguardi degli amanti ne L’hotel degli amori smarriti di Christophe Honoré. Amante come prima ed essenziale condizione delle sue persone, precario e promiscuo in maniera inevitabile. Non solo Maria Mortemart, moglie fedifraga per anni e condotta ad una resa dei conti dal marito, ma anche Richard, incerto, anche solo per un attimo, sui motivi del suo amore per lei. Il dramma non arriva mai a compiersi in sé, come sistema autarchico e autosufficiente, ma ha bisogno di arearsi nelle correnti del gioco, della commedia, dell’incredulità: per capire e capirsi è necessario sospendere – sospendere le sequenze narrative routinarie.
Ed è quello che fa Maria all’interno del proprio spazio mentale, che si trasforma spontaneamente in uno psicodramma moreniano dove la visualizzazione e la prossimità grafica e fisica con gli attori della propria vita – ma anche con gli archetipi – produce una massimizzazione di senso. Cioè Maria, interpretando se stessa, se vogliamo giocando con la sua memoria, ma anche con pezzi di proiezione psichica, riesce a guardare la sua realtà come a un palco in cui uomini e donne in carne ed ossa disegnano la sua storia.
E tutte queste emanazioni spirituali appaiono definite, certe, ma anch’esse sono dimentiche di se stesse – come Richard che non riconosce il suo sé giovane – mentre Maria è disfatta, disciolta, rifranta in mille riflessi ognuno privo di collocazione stabile; Maria si guarda e si chiede chi è. Quest’indagine, che ha molto di filosofico, ma molto poco di solenne, è condotta tramite equivoci, diremmo suo malgrado, mentre “lui, lei, loro, l’altra” e la Volontà, a fare da conduttore d’orchestra, sbucano fuori inconsulti e giocano la loro partita. Alla fine la risposta non è importante, anzi forse è insondabile, ma il tentativo di disporre ogni elemento al proprio posto sì. La realtà, scriveva Rovatti, è sempre una costruzione simbolica. E i bambini-figli diventano manichini-feticcio. Per Honoré i piani di realtà coesistono, addirittura si fondono – il sogno non esiste, anzi la vita è un’allucinazione psichica, una sorta di musical costante – per non dire, ancora una volta, forse ormai banalmente, che il cinema è sempre cinema.
Boulevard du Montparnasse, il cinema Sept Parnassiens, il café (che si chiama proprio Rosebud) esistono, ma vengono anche ricostruiti in studio, si elevano emblematicamente a modellino cinematografico con i due lati della via a fungere da coppia opponente (la casa/l’hotel, con il secondo, ancora simbolicamente, ad accogliere le visite di Maria); eppure non diversamente lavorava la città naturale in Les Chansons d’amour, o in Due amici di Louis Garrel, in cui la mano del soggettista Honoré si faceva ben sentire. Qui lo spazio artificioso rinforza l’alterità psicologica nei confronti del reale, ma Parigi stessa e le sue rue, come teatro melodrammatico di sperimentazione multidimensionale, costituiscono un certo leitmotiv autoriale (ancora pensiamo alla dinamica rappresentativa di derivazione fassbinderiana di alcuni momenti di Plaire, aimer et courir vite). Ed è proprio l’elemento musicale, con la sua apertura all’improvvisazione, a rimanere preponderante, pur scevro in questa occasione da funzioni prettamente di genere: c’è il pianoforte come emblema di espressione identitaria trascurata (come accade a tutti crescendo, sembra dirci Honoré), e così avviene per l’adulto Richard, che viene ricondotto a sé dalla presenza dell’ex-amante, insegnante di musica, che lo ricongiunge allo strumento dopo anni.
Il punto di forza del cinema di Honoré, che negli ultimi anni è andato raffinandosi e maturando in scelte compositivo-estetiche, pare essere la sensazione di precarietà, di sospensione, di estemporaneità a cui si accennava in incipit: la visione disincantata, che non rinuncia al reale sentito come presupposto indispensabile ma coesiste pacificamente e, anzi, necessariamente, con l’immaginazione, con il divertissement sempre un po’ di godardiana reminiscenza, con la consapevolezza della finzione non solo filmica, ma anzitutto quotidiana. La pratica di questa finzione rituale passa anche attraverso il sapersi vedere dal di fuori, attraverso l’insieme di co-attori di cui ci si circonda, in un quadro generale che rende possibile la conciliazione fra tragedia e cabaret. Ridere della vita e nella vita come arma da combattimento per farne fronte. Mentre Vincent Lacoste è un nuovo, più funambolico Louis Garrel, e Chiara Mastroianni una presenza rinnovata, sempre cara. Ognuno di loro è riunito intorno al pianoforte, non tanto per ricordare, ma esperire della propria malinconia. Malinconia di quel passato che vivifica il presente amoroso, senza il quale il sentimento diventerebbe solo un gesto, vuoto, mosso per il semplice gusto dell’azione. E così il fatalismo, l’anti-psicologismo, un’impressione di ineluttabilità conquistano per alcuni momenti l’ambito della narrazione, senza tuttavia segregarne il senso: terminata la notte, l’esperienza proiettiva finisce, ed è tempo di decisioni. Decisione suggerita, che ancora non può darsi come certa. Un verso di una canzone in fieri.