L'Impero
C’è sempre stata, nel cinema di Dumont, l’idea che qualcosa all’interno del mondo fosse in continuo contrasto. Una forza primigenia in grado di muovere i personaggi all’interno del quadro nel tentativo di spingerli verso altrove, verso la meraviglia aldilà dell’orizzonte.
Vincitore del Premio della Giuria al 42esimo Festival del cinema di Berlino, L'impero è l’ultimo film di Bruno Dumont, presentato in anteprima italiana al Bellaria Film Festival e in arrivo nelle sale dal 16 giugno.
Se con Ma Lute siamo stati spettatori di un cambio di rotta all’interno del corpus filmico del registra francese, dominato da grottesche figure felliniane, chiari rimandi al realismo poetico pasoliniano – spesso citato in molte sue interviste – e da un diverso approccio al reale, L'impero sembra essere a tutti gli effetti il punto di congiunzione tra la durezza del quotidiano della campagna francese, dipinta in lungometraggi precedenti come l’Humanité e Flanders, la fanciullesca innocenza (con tutti i crismi del caso) di P'tit Quinquin e la fantascienza da Invasione degli Ultracorpi di Coincoin et les Z'inhumains.
Ed è proprio da quel finale aperto che Dumont decide di partire per strutturare il suo ultimo film: tornano i paesaggi della Normandia con le sue spiagge sconfinate e i piccoli paesini distanti tra loro pochi chilometri, tornano i pescatori con le loro barche malandate e tornano, perché in realtà non se ne sono mai andati, gli alieni.
Bianco e nero, 0 e 1. Sono le due razze extraterresti - masse informi in grado di rimodellarsi e riprodurre la realtà intorno a loro - che, probabilmente da sempre, sono in lotta tra loro nel tentativo di annientarsi a vicenda. Queste, durante il loro peregrinare nello spazio profondo, hanno identificato la Terra come teatro perfetto nel quale poter consumare la loro ultima battaglia. Gli 1, le forze del “bene”, sono capeggiati da un consiglio di figure angeliche rappresentate da Jane (Anamaria Vartolomei). Gli 0, le forze del “male”, sono guidate da uno spietato dittatore che cercherà in tutti i modi di far germogliare il seme del male su tutta la terra attraverso suo figlio, affidato al cavaliere nero Jony (Brandon Vlieghe).
C’è sempre stata, nel cinema del regista francese, l’idea che qualcosa all’interno del mondo fosse in continuo contrasto. Una forza primigenia in grado di muovere i personaggi all’interno del quadro nel tentativo di spingerli verso altrove, verso la meraviglia aldilà dell’orizzonte. Una forza spesso riconducibile a inspiegabili cataclismi naturali – come non pensare all’incendio in Hors Satan (2011) – o a violente azioni umane – l’esplosione in Hadewijch (2009) – sintomo di una ricerca quasi istintiva verso quella forza polarizzante.
E così Dumont sembra voler dare una risposta proprio in questo senso, bene e male che da tempo immemore si sono sfidati nel tentativo di governare sulla terra, con il male intento a ritornare al nulla e il bene che cerca di convivere con gli umani, esseri visti da una parte come involucri vuoti perfetti per procreare, dall’altra come buffe creature dallo scarso spirito di sopravvivenza. Comunque sia perfettibili e abbandonate a loro stesse, in attesa che qualcosa o qualcuno arrivi a guidarle verso il loro destino.
Se L'Impero, come detto in precedenza, segna quindi un ulteriore passo all’interno del dittico P'tit Quinquin- Coincoin et les Z'inhumains, è però evidente che Dumot sia voluto ritornare su molti aspetti che hanno segnato il suo chiacchierato (e spesso stroncato) inizio di carriera.
Scene di sesso primordiale riprese con dei campi lunghi che tanto ricordano Flanders e Hors Satan, riferimenti ai genitali femminili - presenti in maniera esplicita e brutale nell'Humanité - quale origine unica del mondo: quando Jane va a trovare il consiglio supremo del suo popolo sulla nave madre, lo fa attraversando un varco dalla forma vaginale; mentre, quello degli 0, ovvero il male, è un buco nero. E ancora, uomo e donna che si incontrano nuovamente come numeri primi, esseri (quasi) perfetti che sembrano vivere ancora nel Giardino dell’Eden, ma da cui sono destinati a cadere. E se il frutto proibito in origine per Adamo ed Eva fu la mela, per Dumont saranno il corpo e l’anima. «Anche se siamo nemici, lo senti anche tu che i nostri corpi terreni si appartengono, senti anche tu quello che sento io nell’animo», dice Jane a Jony. La distanza tra 0 e 1, un semplice codice binario, acceso o spento. E quando quel vuoto si viene a colmare, in quel finale spettacolare, cioè che rimane non può essere che l’uomo stesso.
L'Impero è tanto Dumont, ma non è solo Dumont. È l’evidenza del fatto che un certo tipo di cinema esiste ancora, autori – o presunti tali – in grado di affermare con forza una personale idea di immagine nel tentativo di intercettare nuovi linguaggi, nuovi mondi e nuove possibilità. L’Impero è la dimostrazione che parlare di multiverso con originalità, nell’era del DC Universe, della Marvel e di Star Wars, è ancora possibile.
«Ecco tutto».