La terra dell'abbastanza
L'esordio dei fratelli d'Innocenzo è la rappresentazione tombale di un'umanità alla deriva, che chaima in causa i nostri doveri verso le generazioni future.
Nello squallore della Roma suburbana La terra dell’abbastanza ci mostra alcune casette colorate. Sono apparizioni fiabesche, note di un realismo magico atipiche per un film ambientato nell’hinterland malavitoso. Eppure quelle pennellate di colore, volute e cercate dai registi Fabio e Damiano D’Innocenzo, sono gli unici bagliori di speranza a fare da sfondo alle chiacchiere di Mirko e Manolo, amici fraterni desiderosi di trovare la propria strada, insieme, magari come barman o aspiranti cuochi. Basta però un viaggio in auto al calar della notte per piombare tra le tenebre più livide: l’assassinio accidentale di un pedone, la fuga, la scoperta dell’identità dell’uomo, la «svorta» con l’ingresso nel mondo del crimine e la rapida discesa all’inferno. I ragazzi di vita si ritrovano ben presto con una vita violenta che sfugge loro dalle mani, così come quel futuro tanto desiderato.
La terra dell’abbastanza, presentato nel “Panorama” del Festival internazionale del cinema di Berlino, non ossequia le mode di certo, pur fortunato, cinema crime nostrano. Non è Suburra né tantomeno Romanzo criminale, o i suoi vari ed eventuali derivati. È più vicino per sensibilità pasoliniana al Caligari di Non essere cattivo, ma senza esserne debitore in quanto scritto molto tempo prima della sua uscita. Prediligendo i dilemmi dell’animo alle crudeltà inflitte alla carne, il film pone al suo centro la storia di un’amicizia che scavalca il genere per affondare nella rappresentazione tombale di un’umanità aliena a qualsiasi presupposto etico, immersa nei toni algidi dettati da una violenza sporca, repellente, mai spettacolarizzata.
A pagare le spese più alte di tanto abbruttimento sono ovviamente i giovani protagonisti, interpretati dagli ottimi Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, il cui sguardo ancora bambino passa dall’incanto di fronte all’espositore di una pasticceria allo sconcerto suscitato dalla visione di uno stupro. La terra dell’abbastanza esula infatti dalle mere vicende di periferia, interpellando le nostre responsabilità nei confronti delle generazioni future. Non a caso il film è adombrato dalla presenza di padri biologici alla deriva morale – un Max Tortora sempre più a suo agio in ruoli genitoriali drammatici, vedi Sulla mia pelle – e di padri padroni abominevoli la cui unica legge è quella del più forte – Luca Zingaretti nel ruolo del malavitoso Angelo – tutti colpevoli di aver precluso a Mirko e Manolo, con i loro esempi aberranti e la promessa di “sogni” distorti, la possibilità di un futuro.
In un’Italia sempre più sorda alle più elementari questioni etiche, un’Italia in cui ci si ostina a credere che i problemi stiano sempre fuori dalla porta di casa, affibbiare a film come La terra dell’abbastanza l’etichetta di “storie borderline”, incapaci di rivolgersi a un quadro più ampio che ci riguarda tutti, significa acclimatarsi a quest’indifferenza. Che lo si creda o no, a interrogarci restano comunque i volti dei due protagonisti, i muscoli facciali contratti in ferite dell’animo, il loro dolore trattenuto a stento e perciò tanto più fatale e imprevedibile. Gli esordienti fratelli D’Innocenzo, cinefili onnivori e autodidatti – in programma un western al femminile e una fiaba dark – dimostrano di saper ascoltare quei volti, ponendoli in dialogo con il nostro tempo. Resta da capire se anche noi siamo in grado di fare altrettanto.