America Latina
Fabio e Damiano D'Innocenzo impongono al loro nichilismo adolescenziale il rigore del thriller, e chiudono un ciclo con il loro film migliore. E adesso? Non resta che seppellire i padri, e diventare adulti
Con chi ce l'hanno, Fabio e Damiano D'Innocenzo? Arrivati con America Latina al terzo lavoro, è questa l'unica domanda che una simile poetica dell'odio sembra aver lasciato aperta. A una risposta si arriverà forse col tempo, nella lettura sistematica di un film dopo l'altro, come sfogliando i temi scolastici di un adolescente chiuso e problematico. Perché un odio così cieco e totalizzante appare alla lunga più adolescenziale che altro, come (volutamente?) infantile pareva il climax di Favolacce - molto probabilmente il loro film meno riuscito, debitamente incensato da un'industria bisognosa di Autori pop come le piante dell'acqua. Il film del 2020 era paradigmatico di questa singolare concezione del dramma: cinema del dolore ossessivo e ossessionato, mai lucido né critico, che sacrificava ogni analisi ad un rancore viscerale quanto superficiale da far scontare (meglio, espiare) ai personaggi attraverso follia, orrore, morte.
Arrivati infine ad America Latina, il nichilismo degli autori abbandona le poche coordinate ideologiche che pareva guidarlo per ergersi a leopardiana visione del cosmo. Le prime opere indicavano la “colpa” biblica di certa umanità contemporanea nell'ignoranza, il bisogno, la marginalità: e veniva dunque spontaneo leggere un certo classismo moralista a guidare il punitivo martello dei narratori-demiurghi. Come a liquidare tale interpretazione, è ora l'alta borghesia di provincia a finire nel mirino: e il nuovo protagonista da seviziare è un ometto di famiglia dolce, colto, amante della musica, la cui vita sarà sconvolta da un “incubo” materializzato in cantina.
No, il cinema dei D'Innocenzo non ce l'ha né con i poveri né con i ricchi, né gli idioti né i violenti: l'odio è totale, vivere è dolore, la salvezza non è contemplata, la Grazia un trittico di Madonne della pietà allucinate nella cella del condannato. Cine-cilicio, memento mori e frustate sulla schiena.
Forse a sorpresa, il parente più stretto di America Latina è stavolta un film di genere, ovvero il thriller Caché di Michael Haneke. E tutto torna: chi più dell'austriaco ha sintetizzato quella concezione di film-teorema, che i registi hanno da subito eletto a bussola poetica? Ma se nel film del 2005 il sommerso era colossale, mostruoso, e metteva in discussione l'intera dimensione storica della borghesia francese, il politico (nel senso di rapporto con il mondo) è invece l'assenza più significativa negli apologhi dei D'Innocenzo. La loro interpretazione larvale del dolore (sempre Edipo, ca va sans dire), che sistematicamente rigetta ogni lettura che possa condurre fuori dal salotto e dal letto di mamma e papà, era proprio ciò che rendeva incompiuti i teoremi della sofferenza dei primi lavori: film manipolatori fin dagli assunti, che collocavano personaggi-formule in un macchinario dialettico dalla tesi prestabilita e autoaffermante. E proprio l'assenza di un enunciato da imporre è ciò che segna il cambio di passo di America Latina: per la prima volta un loro film respira, vive del buio che non illumina, invitandoci a indagarlo (e peccato per quel voice over finale...). Gli autori scardinano la gabbia in cui si erano volontariamente barricati, scendono dal pulpito, e riconsegnano allo spettatore il diritto e il dovere di interpretare.
America Latina è il miglior film dei Fratelli D'Innocenzo. Certo, il primo approccio diretto con la suspense è migliorabile: la polanskiana messa in discussione dello sguardo e dell'Io richiede struttura, scansione - mentre qui a prevalere è ancora un endoscheletro “a scenette”, che rende la visione un po' faticosa. Ma l'evoluzione espressiva è palese; laddove Favolacce pareva generato dall'algoritmo dei sorrentino-garronismi, la scelta di abbandonare il non-luogo cinematografico del drammone impone ai ragazzi le redini del thriller, disciplinandone il barocchismo. C'è una direzione, e coerenza formale.
Se fin dal buon esordio i D'Innocenzo hanno voluto presentare luoghi cinematografici nuovi, alieni alla marcia dicotomia centro-borgata, qui si superano: nella costruzione ambientale di una Louisiana mediterranea, attraverso il montaggio di Walter Fasano (campione) e un incredibile lavoro al sonoro, il panorama diventa uno spazio psichico, e il delirio esperienza sensoriale. La placidità diurna della villa protagonista si stravolge al buio in un incubo espressionista: come l'appartamento di Strade perdute (altro modello), l'ordinario perde la sua maschera di normalità, si deturpa sotto l'occhio della cinepresa, mentre i piani del “sotto” e del “sopra” si contaminano fino a convergere. Tante idee, tanto cinema: difficile, appena complesso, finalmente adulto.
E ora, che si fa? Ora che lo smembramento di padri e figli ha raggiunto l'apice mistico-metafisico, non resta che uscire di casa. L'umorismo, il sesso, l'amore, il lavoro, la Storia e il mondo intero sono rimasti fuori da questa cupa trilogia del dolorismo familiare: si potrebbe provare a raccontarli. Non è detto che siano nelle corde del duo, e forse un film diverso non lo faranno mai. Ma varrebbe la pena provarci - alla lunga, non ci si stanca di odiare?