Le streghe
Un viaggio per ragazzi che può essere anche teoria cinematografica e sperimentazione narrativa, rivisitazione della prosa di Dahl e metafora di storture sociali ed economiche.
L’incipit del nuovo lavoro di Robert Zemeckis nasconde alcune verità. Una riguarda il significato intrinseco del film, l’altra ricollega quest’ultimo, imprevisto lungometraggio alla complessa opera zemeckisiana, divenendone espressione e conferma.
Un proiettore si accende. Una voce fuori campo parla a una classe di bambini che, diligenti, guardano, osservano, ascoltano. Come al cinema. Subito dopo, l’inizio del racconto vede un bambino all’interno di una macchina. Fuori nevica ma, incredibilmente, i fiocchi di neve fanno un percorso inverso, sembra che risalgano. Un movimento della macchina da presa in rotazione ci rivela che il bambino è all’interno di una vettura rovesciata, un incidente in cui hanno appena perso la vita i suoi genitori.
In questi due incipit, quindi, c’è un concetto che Zemeckis intende ribadire: la necessità dell’esperienza cinematografica come momento di condivisione, creazione, fruizione del racconto. Elemento stordente, dato che Le streghe è stato distribuito direttamente in digitale, a causa dell’emergenza per la pandemia. Ma, soprattutto, c’è quello che nel mio volume (che mi permetto di citare) dedicato al regista di Chicago che scrissi diversi anni fa definii “Lo sguardo insufficiente”. Lo sguardo, per Zemeckis, è un atto assoluto ma insufficiente a racchiudere la complessità di ciò che sta riproducendo. E, di conseguenza, il cinema stesso, attraverso lo sguardo del regista, diventa strumento di falsificazione, morte e rinascita dell’oggetto ripreso, che assume significati diversi a seconda delle intenzioni dell’autore. Lo spettatore stesso è in balia del regista demiurgo che gioca con i sensi, le prospettive, i punti di vista. Zemeckis è, in questo senso, un autore sublime nel modellare a suo piacimento la materia cinematografica, raccontando tra le righe gli Stati Uniti e le loro idiosincrasie.
Nella sequenza ribaltata c’è un inganno che nasconde il vuoto generato dalla morte: il binomio bambino-neve, solitamente associato a un momento di felicità, di liberazione, di serenità, si trasforma nel momento tragico che innesca il motore della storia e, con esso, il senso politico di un film come Le streghe, tratto dall’omonimo romanzo di Roald Dahl. E questo senso sta nelle piccole modifiche che, astutamente, Zemeckis apporta al film: dall’Inghilterra agli Stati Uniti, e in particolare l’Alabama, dagli anni Ottanta al 1968. L’inevitabile guerra fra i bambini e le streghe è una guerra sociale. Le streghe trasfigura nell’atto favolistico le frizioni infinite che ribollono sotto il tessuto sociale degli Stati Uniti e che, alla luce di ciò che è successo con la morte di George Floyd e la ribalta del movimento Black Live Matters (che esisteva già dal 2013), diventa urgenza da far conoscere a tutti, a partire dai bambini stessi. C’è dunque la questione razziale, ma anche economica: pare evidente che Le streghe sia una parabola sul capitalismo e sulle guerre intestine che, in nome del denaro, generano al proprio interno. Pensateci bene (SPOILER): i bambini trasformati in topi usano le stesse armi delle streghe contro di loro. La pozione prima ma, successivamente, la montagna di soldi con cui finanziare la guerra alle streghe. E i primi dollari presi alle streghe finiscono proprio in mano ai valletti afroamericani che lavorano nell’hotel di lusso dedicato ai benestanti WASP.
Le streghe, su un piano differente, è anche un perfetto meccanismo d’intrattenimento: la maestria di Zemeckis nel gestire i tempi, il ritmo, la suspense risiede nel suo incrollabile desiderio di sperimentare, ancora, sullo sguardo. E così la mdp cessa di essere uno strumento di riproduzione, con i suoi limiti fisici, quanto piuttosto l’occasione per far propria l’immagine e andare oltre il limite della bidimensionalità. Abbandonata la performance capture che rendeva la trilogia Polar Express, La leggenda di Bewoulf e A Christmas Carol pura teoria cinematografica, con Le streghe (ma anche con Benvenuti a Marwen) quello sguardo insufficiente di cui si parlava all’inizio diventa paradigma di un cinema altro, un cinema del possibile.
E a chi imputa a Zemeckis un impoverimento in quello che sicuramente è un film minore, andrebbe ricordato che in tutto il suo mastodontico percorso filmico, Zemeckis ha lavorato sempre sull’intersezione fra sguardo e metafora, storia e Storia, micro e macro. In pratica sul quel labile spazio che esiste fra l’occhio e l’immagine. Tale è anche Le streghe: un viaggio per ragazzi che può essere anche teoria cinematografica e sperimentazione narrativa.