Dark Horse
L’insostenibile pesantezza del benessere
Il funambolo Todd Solondz ha la capacità di tenersi in perfetto equilibrio su un confine labile e talvolta impercettibile tra riso e pianto, tra illusione ed amarezza, tra dramma e commedia. La sua filmografia è infatti caratterizzata da trame che rasentano l’inesprimibile orrore che designa alcuni tratti tipicamente umani, elaborati e restituiti, però, con un irriverente, spiazzante e impeccabile senso dell’umorismo: Solondz coglie l’assurdo nel mostruoso e la tragedia nell’apparente felicità che avvolge l’ipocrisia occidentale, suo privilegiato bersaglio di polemica e scherno.
Autore dalla regia tipicamente essenziale e asciutta, forse anche per limiti produttivi, Solondz si configura come creatore di personaggi ed osservatore delle dinamiche innescate da essi nei contesti in cui li inserisce. Esseri talmente pungenti ed inoppugnabili da poter trascendere i limiti fisici della pellicola e reincarnarsi in corpi sempre nuovi. In questo senso l’esperienza di Palindromi rappresenta l’esempio ideale ed emblematico di un’essenza narrativa e, soprattutto, di una complessità interiore che si esprime trasversalmente attraverso l’utilizzo di diversi attori per interpretare la sua infelice protagonista, Ava. Se i personaggi di Solondz si ripropongono così di film in film, spesso in modo esplicito grazie a riferimenti narrativi precisi, in Dark Horse il punto di unione è sfumato e vago, seppur presente. Possiamo infatti riconoscere la pellicola come tappa successiva del capitolo Fiction di Storytelling. A stabilire il legame è il personaggio interpretato da Selma Blair, Miranda (formerly Vi, come leggiamo nei titoli di coda), al tempo una focosa e brillante studentessa di Letteratura, oggi scrittrice fallita e disillusa, sopravvissuta a diversi tentativi di suicidio, perennemente intossicata da psicofarmaci.
Dark Horse ruota attorno al personaggio di Abe (Jordan Gelber), fastidioso ed ingombrante protagonista, cui lo spettatore si relaziona immediatamente e amaramente per le sue più bieche e grette caratteristiche. Immaturo e antipatico, abita un universo chiuso, blindato, che ostenta colori sgargianti - il giallo del suo imponente SUV - e allegre canzonette pop al solo scopo di celare una spaventosa vacuità interiore. Creatura estremamente ricca nella sua superficialità, emblema di quel decadimento fisico e morale di un paese incapace di valorizzare le proprie risorse, essere abnorme e ingombrante, accovacciato nel grasso benessere dell’arido comfort creato dal contesto sociale in cui abita e che involontariamente e stupidamente rappresenta.
Abe fagocita ogni cosa, ma soffre di una perenne insoddisfazione. Desidera un cambiamento, ma è troppo avviluppato nell’autocommiserazione per carpire il mondo che lo circonda e cogliere realmente le occasioni che gli si presentano innanzi. Per comprendere, ad esempio, l’effetto conturbante provocatogli dalla segretaria, Marie (Donna Murphy), e ostinandosi invece a conquistare la bella e triste Miranda, incerta controfigura di quella che ai suoi occhi dovrebbe rappresentare la donna ideale. Anche gli sforzi del padre, Christopher Walken, a cui attribuisce ingiustamente la sua pavida assenza di crescita e autoaffermazione, sono interpretati dal protagonista come manifestazioni di aggressività. Al contempo superiore e inferiore rispetto alle situazioni che vive, troppo abile, ma insieme incapace di portare a termine anche il più semplice dei lavori affidatogli, Abe vive un’emotività incentrata unicamente sullo sfogo, nei rari momenti in cui non è distratto da una forma di schiacciante vittimismo, inabile nel gestire una rabbia radicata e repressa. Ad alimentarlo una madre iperprotettiva, Mia Farrow, che tollera ogni angheria, ogni sordo capriccio, ogni disarmante rinuncia alla vita.
Attraverso le gesta del suo pesante protagonista, Dark Horse si dispiega lasciando qualche sorriso e un intenso retrogusto di amarezza. Se, però, l’opera racchiude in sé tutti gli ingredienti tipicamente utilizzati dal regista, tra cui una solida sceneggiatura costellata di monologhi intensi e significativi, atmosfere cariche di contrasti e una colonna sonora in perfetta e spiazzante disarmonia con le immagini, essa appare disomogenea nel suo insieme e si configura, in ultimo, come una delle meno riuscite dell’autore americano. Una pellicola mancata, forse, alla stregua della psiche del protagonista che racconta, tracciando dunque, paradossalmente, gli sventurati limiti dell’estrema ed efficace coerenza che lo caratterizza fin dai suoi primi lavori.