Wiener Dog
Todd Solondz torna a raccontare la crudeltà sotterranea insita nella società americana in un film ad episodi, tra vecchi e nuovi personaggi disfunzionali
È facile che gli appassionati di Todd Solondz abbiano un sussulto alla visione di Wiener Dog: ma come, davvero la ragazza bionda interpretata da Greta Gerwig è Dawn, quella Dawn Wiener protagonista del più famoso film del regista americana, Welcome to the DollHouse (titolo italiano Fuga dalla Terza Media)? La ragazzina invisibile agli occhi dei genitori e vessata dai coetanei, che nel successivo Palindromes risultava essersi suicidata una volta cresciuta, a sorpresa riappare qui rediviva e sempre dolcissima.
In fondo Dawn è il personaggio più bello nato dall’immaginazione di Solondtz, nonché il capostipite di una lunga serie di caratteri gentili, remissivi e buoni che nei suoi film vengono ciclicamente annientati da parenti, amici, e colleghi che li sfruttano, li ignorano e li calpestano senza pietà. Il Wiener dog, il nomignolo con cui Dawn veniva perseguitata dai compagni a scuola, è ora un bassotto vero e proprio, chiamato così per la sua somiglianza con un hot dog dotato di gambe. Filo conduttore di un’opera divisa in episodi, il cane cambierà nome e padrone fino ad andare incontro a un tragico epilogo in una scena il cui sadismo sfiora quasi la cattiveria gratuita.
Nella società americana descritta nel film sembra non esserci posto per chi commette la colpa di avere un animo sensibile. Per Solondz sono soprattutto i bambini, le donne e gli animali a vivere un destino di sopraffazione, ma in generale tutti coloro che sono incapaci di fare la voce grossa, di mentire e di ferire l’altro diventano invisibili e muti. Nel primo episodio il cane, che costituisce il regalo per un bambino convalescente da una grave malattia, riceve un addestramento consapevolmente rivolto a distruggere la sua volontà per sottomettersi ai genitori: chiuso in una gabbia finché non smette di abbaiare, sterilizzato perché non dia fastidio coi suoi cuccioli, e subito spedito a essere addormentato per sempre non appena il suo stomaco crea qualche problema in casa.
Sarà Dawn a salvarlo dalla morte, la cui ineluttabilità è il tema dominante di tutto il film. In una sorta di crescita anagrafica dal primo padrone, un bambino, per passare alla ragazza, a un insegnante di cinema prossimo al fallimento professionale di Danny DeVito) e infine a una nonna malandata (Ellen Burstyn) che riceve una visita tardiva dalla nipote, tutti i padroni del Wiener Dog scoprono la propria e l’altrui mortalità, la temono e si angosciano all’idea del tempo che scorre inesorabile verso la fine.
Il cinema di Solondz è sempre stato macabro, crudele e impietoso: il Black Humour che attraversa tutte le sue opere si concretizza in dialoghi in cui i personaggi esprimono con estrema tranquillità idee e pensieri scioccanti. Una madre non si fa problemi a ricordare al figlio piccolo che presto morirà, né a giustificare la necessaria sterilizzazione del cane con un atroce racconto in cui il cucciolo della sua infanzia viene stuprato dal bastardino del quartiere; d’altra parte non c’è da stupirsi dato che stiamo parlando dello stesso regista che in Happiness mostrava un padre intento a descrivere dettagliatamente a un figlio le proprie tendenze pedofile. Ma la frantumazione della storia in episodi, e lo scarso tempo assegnato ad ogni personaggio/padrone fa di Wiener Dog un film difficile, fatto di lampi di follia e parentesi di tenerezza che scivolano via troppo velocemente per mettere radici nella mente dello spettatore. I rimandi e i collegamenti fra i singoli personaggi e gli altri film del regista sono numerosi ma fulminei, ed è probabile che l’altalenante qualità di un episodio rispetto a un altro faccia di Wiener Dog un’opera che riesce a farsi apprezzare solo per una sua singola parte, piuttosto che nella sua interezza.
Solondz non ha fiducia nella società contemporanea, che offre troppe maschere e punisce chi invece è talmente “incapace” di nascondersi da giocare sempre a viso scoperto, facendolo impazzire o distruggendolo spiritualmente - esattamente come si può fare a un cane in gabbia – eppure prova per i protagonisti quella compassione di cui sono privi i loro antagonisti, ed è in quei minimi istanti di dolcezza, quando tra i personaggi riesce a instaurarsi tramite lo sguardo una breve ma autentica unione spirituale, che egli ritrova il valore di un’umanità ancora palpitante sotto metri e metri di solitudine. Il ritorno di Dawn, resuscitata dal suo suicidio, e riunita all’ex ragazzino bullo – ora tossicodipendente - che per primo l’aveva amata, è il regalo prezioso di un film discontinuo che conferma, pur nei suoi difetti, lo sguardo notevole del suo autore.