Crimes of the Future
Cronenberg crea ex novo un mondo e un tempo che rivelano l’uomo come (in)compiuta e declinante, perciò magnifica, opera d’arte.
È un film che viene dal passato Crimes of the Future, ultima creazione di David Cronenberg, pur abitando, a livello tematico, in una Zona spazio-temporale di un futuro remoto e poco agevole da decifrare attraverso i tratti del presente. È fin dal 1998 che si mette in moto il progetto originario di un titolo che impiegherà ventiquattro anni per vedere la luce, un piano di lavoro sostanzialmente contemporaneo a quello di eXistenZ (che esce nel ‘99) e che avrebbe dovuto essere trasformato in immagini a partire dal 2003, ovvero l’anno successivo all’uscita di Spider. Non a caso, il protagonista prescelto per l’occasione avrebbe dovuto essere nuovamente Ralph Fiennes. I legami col passato, tuttavia, rimandano ancora più indietro nel tempo, visto il nesso, apparentemente solo nominale, che Crimes of the Future intrattiene con l’omonimo titolo del 1970, col quale in realtà presenta svariate comunanze, sia pure ampiamente deformate dalle esperienze filmiche affrontate da Cronenberg in questo ampio arco di tempo.
Al netto delle ovvie differenze stilistiche e di bilancio fra il Cronenberg del ’70 e quello di oggi (il Crimes di quest’anno è comunque il frutto di una produzione travagliata e tutt’altro che ricca), in entrambi i titoli il focus dello sguardo è ben puntato su elementi pulsionali ed emotivi pressoché sempre presenti nell’opera del regista, ed entrambi occhieggiano un futuro senza specifiche marche temporali e in cui un’umanità sempre più larvale, residuale, mostra gli ultimi bagliori del proprio crepuscolo. Il Crimes of the Future del ’70, a metà strada fra azzardi godardiani e suggestioni surrealiste, si distingue dall’omonimo contemporaneo soprattutto per il conflitto fra un décor asettico, indifferente, e l’erompere di pulsioni bizzarre e financo innominabili, di cui costituisce una specie di prontuario. Invece, il “secondo” Crimes of the Future risulta oggi totalmente coerente, sul versante scenografico, con la “corporeizzazione” degli spazi e degli oggetti che contraddistingue buona parte del cinema narrativo di Cronenberg, almeno fino a eXistenZ. Ed è qui, nel delinearsi di una concezione filosoficamente radicale della materia come organismo, come spazio integralmente vivo, sia nelle sue propaggini autenticamente organico-biologiche sia in quelle inorganiche e meccaniche, che probabilmente si inscrive l’ormai antica urgenza del regista di ricorrere all’horror – sovente venato di fantascienza – come grimaldello stilistico. Lo scopo è di aprire la via alla propria concezione dell’uomo e della realtà tutta come due sistemi complessi e interagenti reciprocamente. In tale processo si inseriscono le dinamiche che portano pressoché tutti i personaggi centrali cronenberghiani a interrogarsi sulla propria identità e a cercare di preservarne l’unità, sovente con esiti tragici.
Dopo la lunga parentesi da A History of Violence fino a Maps to the Stars, che marca un distacco dall’horror/sci-fi ma non dalle vecchie ossessioni, col nuovo film Cronenberg dà l’impressione di voler riprendere un sentiero interrotto per portarlo a compimento, sia come recupero in chiave orrorifico-fantascientifica dei propri temi prediletti, sia come ritorno a un progetto che, oggi, si configura come una sorta di compendio del proprio percorso creativo. La vita e la morte, l’arte e l’umano (il corpo come mappa da decifrare e come abisso, o meglio, come mise en abîme del senso), l’organico e l’inorganico, l’istituzione conservatrice e la ribellione prometeica trovano spazio come assoluti, come macro-concetti filosofici, in un’opera che non fornisce mai coordinate spazio-temporali o chiarimenti narrativi e che si focalizza sull’interazione dello spettacolo filmico con altre forme espressive nonché, soprattutto, sulla condizione dell’uomo nel contesto di un’era trans-umana o post-umana, non così distante da quella attuale.
Saul Tenser (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux) sono due artisti performativi, le cui esibizioni si addentrano nei sentieri della body art e della performance art, superandone ampiamente i confini. Si tratta di interventi chirurgici che si delineano, a un tempo, come atti erotici – “la chirurgia è il nuovo sesso” – e come fucina di immagini, visto che molti degli astanti ne filmano l’esecuzione. Il corpo di Tenser è infatti afflitto da una produzione continua di escrescenze tumorali, di Nuova Carne che Caprice rimuove per salvaguardare la sopravvivenza dell’uomo. Tuttavia, nel nuovo mondo tratteggiato dal regista non vi è più spazio per il dolore fisico, anzi, ciò che un tempo recava dolore può configurarsi, nel presente filmico, come fonte di piacere. Eppure, l’umanità non ha oltrepassato la soglia della propria mortalità e dei propri affanni terreni, tanto da doversi anche ingegnare nel trarre risorse alimentari dalla materia inorganica. A partire da questo apparentemente insolubile problema, sullo sfondo degli eventi che coinvolgono i due protagonisti cominciano a palesarsi due istanze contrapposte, una rivoluzionaria e una conservatrice. La prima è rappresentata da un oscuro gruppo di cospiratori, capitanati dall’ombroso Lang Dotrice (Scott Speedman), il cui scopo è la modificazione dell’apparato digerente umano con la funzione di usare la plastica e altri prodotti chimici di sintesi come alimento, mentre la seconda è incarnata dalle forze dell’(antico) ordine, ovvero Cope (Welket Bungué), un poliziotto della brigata New Vice, e da Wippet (Don McKellar) con la sua gregaria Timlin (Kristen Stewart), membri del National Organ Registry, due burocrati.
In Crimes of the Future, sullo sfondo di un ambiente lunare e metafisico in cui oggetti e protesi organiche (à la eXistenZ / Il pasto nudo) interagiscono coi personaggi, a fronteggiarsi sono l’Uomo Vecchio e l’Uomo Nuovo – o se si vuole, la Vecchia Carne e la Nuova Carne – posti entrambi di fronte al dilemma di continuare a perpetuare la propria natura ormai prossima al collasso, con ciò stesso estinguendosi, o di lavorare invece per modificarne i tratti, cercando di (soprav)vivere. L’atteggiamento del regista è fenomenologico e tutt’altro che giudicante, nell’osservare i personaggi e nel costruirne le psicologie attraverso i dialoghi, dimostrando in pieno di rispettare tutte le istanze in gioco. In generale, ciò che sembra interessarlo non sono tanto le contrapposte aspirazioni, bensì la possibilità di veicolare, tramite queste, una nitida immagine della condizione umana. D’altro canto, a Cronenberg non preme nemmeno ergersi a profeta o vaticinare il futuro, giacché egli il futuro lo crea e, partendo da alcuni dati di realtà, ne trae una prospettiva cosmologica totalmente inedita, ancorché strettamente collegata al presente, il tempo in cui si compie il destino dell’uomo.
È al versante creativo che il regista accorda invece completamente la propria preferenza, individuando in Tenser e Caprice l’ultimo baluardo di emancipazione per un’umanità sempre più tenue, debole, incerta. I due, nelle proprie performance, portano in scena il più grande spettacolo del mondo, ovvero l’uomo stesso, le cui aberrazioni corporee (i “crimes” del titolo o i “new vices” contro cui lotta l’unità poliziesca di Cope), siano esse naturali o indotte, sono il sintomo del mistero dell’esistenza e conducono i poli opposti della vita e della morte a convergere, per giungere a co-appartenersi reciprocamente. Tenser incarna un novello Prometeo (del resto, Zeus faceva ricrescere il fegato, al Titano) con sfumature cristologiche, il cui martirio è umano, troppo umano, ed è il simbolo della condizione complessiva di tutti i viventi, di cui egli sembra assumere su di sé la sofferenza in veste di testimone. E là dove l’arte pittorica delle crocefissioni e dei martirii bloccava nella tela l’attimo fatale, Cronenberg espunge quest’ultimo, costringendo il proprio protagonista a esibire la sua condizione di mortale senza doverla scontare, ma anzi rendendola uno spettacolo – continuamente replicabile e moltiplicabile – per gli astanti. L’inquadratura finale, un primissimo piano dreyeriano/bergmaniano in bianco e nero del volto sofferente di Tenser, cambia invece prospettiva, rallentando il movimento e azzerando il colore, per tendere a una purificazione del visivo, a una ecologia dell’immagine. E Cronenberg, in tal modo, sembra dirci – ma l’ha sempre fatto – che non esiste opera d’arte più grande dell’essere umano e che, di fronte a esso, è bene che lo sguardo sospenda il proprio ostinato peregrinare.