Tromperie - Inganno
Desplechin continua a giocare con le maschere e gli pseudonimi per cercare di raccontare se stesso: questa volta scivola nella pelle di un Philip Roth esiliato e accerchiato dai fantasmi del proprio desiderio.
Dopo essersi dissimulato in un codice solo apparentemente estraneo ai propri monologhi esistenziali, Arnaud Desplechin non è tornato di corsa alle sue più esplicite rifrazioni, ai soliti Dédalus, Ismael, Esther, Ivan e compagnia, ma è saltato a piè pari dentro a un nuovo codice: dopo il polar, ecco la trasposizione dell’auto fiction di Philip Roth, Tromperie - Inganno, il romanzo fatto solo delle voci del proprio autore e di una sua fantasmatica amante inglese. Nessuna sorpresa in realtà: non si tratta di una deviazione vera e propria, ma di un altro raggiro prospettico (già Roubaix, una luce era storia di delitto e castigo infestata dai fantasmi dell’autobiografia) che pare scarto e invece è ennesima occasione di rispecchiamento.
Sono anni che Desplechin non si muove dal solco metodologico segnato in tempi non sospetti quando, in Comment je me suis disputé...(ma vie sexuelle), attraverso il suo alter ego Paul Dédalus si era messo a citare Kierkegaard: “Non c’è niente di più esaltante della possibilità”. Con quel tributo sibillino, non tanto diretto a Kierkegaard in sé (il filosofo più critico della possibilità intesa come forma schizofrenica di libertà in cui si può sempre scegliere) quanto al Kierkegaard sotto pseudonimo estetico, il regista si rivelava estimatore della pseudonimia a fini esibizionisti, cioè della finzione come modo per raccontare se stessi, e apriva il suo cinema degli alter ego e delle maschere, dello spionaggio e controspionaggio dell’anima - lo stesso Kierkegaard si definì “spia mandata da Dio” -, il cinema della possibilità di essere sempre altrimenti, pensato come una scala asintoticamente indirizzata verso un’identità che si vorrebbe propria ma non si riesce ad afferrare. Il tributo, a dirla tutta, era interessato più alla forma del gioco che ai suoi contenuti (il regista tuttora non pare interessato a rivelare l’impasse esistenziale dei cristiani di Danimarca), e già rivelava disinteresse per un fine considerato impossibile da raggiungere: se infatti, semplificando, per il filosofo danese la scala degli pseudonimi era solo un mezzo da gettare dopo aver raggiunto il gradino della rivelazione del sé, per Desplechin non c’è alcuna identità da raggiungere o da rivelare e quindi la scala non si può gettare.
Di più, il florilegio di invenzioni e finzioni costruito a gran voce per raccontarsi è l’unica identità che per Desplechin ci si può permettere, l’unica posizione eleggibile: siccome l’identità è un discorso che sorge intorno a un vuoto, intorno a una mancanza, intorno a un meno, intorno insomma all’impossibilità di raccontarsi (come si lamentava sempre Dédalus nel già citato film) per raccontarsi sembra opportuno spostare l’equilibrio sul segno del più, dell’eccesso, facendosi raccontare, facendosi scrivere, facendosi parlare dagli altri, cedendo insomma la parola e in questo atto di cessione (che molte volte il regista chiama di “fondazione”) prendere vita. È così che inizia Tromperie, non con lo straparlare di un Roth incastrato nel proprio esilio londinese ma con la voce di un’altra, una donna, a cui è chiesto di evocare il mondo e che senza indugi mette in scena la realtà attraverso le parole: è lei che apre il film scrollandosi dal volto il velo di trucco dell’oscurità, emergendo nella piena luce di un discorso che la vede senza nome ma presto autrice della personalità del suo amante – lui il solito Ulisse e lei non la solita Penelope, piuttosto un Omero; è lei che da apparenza fantasmatica forse inesistente, forse solo mentale, prende sempre più corpo attraverso questa parola, fino a raggiungere un grado di realtà capace di portare contraddizione e rifiuto. Non è la prima volta nel cinema di Desplechin che una donna assume esistenza attraverso la parola su richiesta di un uomo: I miei giorni più belli era un film in cui l’alter ego del regista cercava di ricordare il punto di inizio della propria personalità e lo trovava in Esther, o meglio, nella presa di parola di Esther, giovane donna che prendeva esistenza dal nulla iniziando a scrivere e quindi a scriversi; anche in quel caso Esther esisteva per il regista come momento di fondazione, un’auto fondazione, uno stratagemma per farsi raccontare. Nella postura di “audiofilo” che pone domande sul proprio sé e vuole farsi decidere dalla sua controparte femminile anche rispetto alla propria morte, il Philip che è Desplechin ricomprende sempre l’esistenza dell’amante senza nome nella logica di un discorso su se stesso che sorge dal vuoto costitutivo dell’impossibilità di afferrarsi: lì dove c’è quel vuoto, ecco il volto di una donna, comparsa come feticcio nel teatro di una coscienza ipertrofica tanto interessata a se stessa, tanto desiderosa di possedersi da rimanere frustrata di non poter “scopare le proprie parole”.
Esiste un polo dialettico in questo meccanismo monologico così coerente e strategico (Desplechin mastica psicanalisi a bocca aperta) da trasformare l’altro in uno specchietto per il proprio godimento? Non che sia necessario in realtà: il cinema per questo regista è soprattutto un’occasione di elaborazione personale fuori tempo massimo, un’insperata via di fuga da quella strada senza uscita che è la propria identità, la cassa di risonanza con cui è possibile trasformare la confusione esistenziale provocata dalle incertezze e dai traumi della propria vita in strutture armoniche di senso, orientate intorno al principio confessionale di una solitudine che cerca riparo.
Anche Tromperie è un film su un uomo che cerca riparo, che cerca fondazione, un uomo che in fondo, come tutti gli uomini negli altri film di Desplechin, cerca una madre che pare sospettosamente non considerare – “Sei proprio figlio di tuo padre” “E di chi dovrei esserlo altrimenti?” si dicono i personaggi verso il finale (e forse proprio in questo senso, con la natura infantile del suo protagonista e i fantasmi di un rapporto materno negato, si spiega la paradossale pudicizia di un film che gira continuamente intorno al sesso senza mai davvero affrontarlo).
Si potrebbe concludere che il cinema di questo regista così ossessionato dai trascorsi emotivi dell’ego possa fare a meno dell’altro, e che in effetti legittimamente ne faccia a meno, se non per ragioni consolatorie e difensive. Il finale di Tromperie però sussurra qualcosa d’altro, insinua un dubbio nella fortezza, sventra il monologo e la certezza del pigro autorialismo: che lo si voglia o non lo si voglia, che si cerchi di disporlo in un gioco strategico, che si pensi di averne o no il controllo, l’altro non sente ragioni, semplicemente accade. Accade e smentisce. È questo il territorio ancora inesplorato del cinema di Desplechin, lo spazio aperto da una figura inizialmente inesistente, creata a piacimento, che però esce di scena togliendo di mano le rifrazioni della possibilità a chi pensava di possederle con una testardaggine esistenziale propria di ciò che sta bene in piena luce e nel buio della cancellazione non vuole tornare. Quasi “come se”, per capitolare sempre su Kierkegaard, “a uno scrittore fosse sfuggito un errore, come se questo errore si rivoltasse contro l’autore e per acredine contro di lui gli impedisse di rettificarlo, dicendogli, con ostinazione folle: no non voglio essere cancellato, voglio restare come testimone contro di te, come rappresentanza che sei uno scrittore mediocre”.