Mank
It’s all true: un fake memoir dal sottobosco del cinema hollywoodiano, un sogno di compensazione in cui si cerca il riscatto di una vita senza perdere di vista certi elementi di crisi del contemporaneo.
In un anno stravolto dalla pandemia – tra sciagurato disinteresse politico per il settore culturale, e media company pronte a sfruttare la contingenza per stravolgere le pratiche di visione servendo al pubblico opportuni cambi di business – era prevedibile che un film come Mank convergesse su di sé tutta l’attenzione del microcosmo cinefilo.
Il film di David Fincher per Netflix – covato e tentato da più di vent’anni, scritto dal padre del regista nel frattempo scomparso – si confronta del resto con un capolavoro che è pietra miliare del cinema americano e mondiale, dialogando con Orson Welles e tanti altri protagonisti di quella storia mitologica che è la Hollywood classica. Ma soprattutto l’arrivo di Mank, al netto del modo in cui il film viene recepito, amato o respinto, è un segno magnifico di ciò che ancora oggi è il desiderio di cinema, la fame di immagini, l’amore per uno dei media più vessati e afflitti da questa pandemia – nel finale Mank la definisce la magia del cinema, imputando ad essa la falsità dei crediti di Quarto potere e i sotterfugi dei produttori spietati, le convergenze di potere classiste, la manipolazione mediale delle fake news ante litteram, ben sapendo che è comunque in questo coacervo bizantino e grottesco di ambizioni, solitudini e ipocrisie che per chiunque, dal primo figurante all’ultimo dei producers, dagli sceneggiatori che fanno a gara di cinismo agli spettatori isolati tra quattro mura e un divano, si innesca il meccanismo del desiderio. Perché è da qui che scegliamo di vedere il mondo. Dalla sua immagine.
È giusto e opportuno allora esperire il film dal dentro di quest’emergenza sanitaria, pensarlo come parte essenziale di quest’anno funesto e risposta finanche effettuale a ciò che manca, ma sarebbe un errore imputare la natura libidica di Mank al solo contesto spazio-temporale. Quello ideato da Fincher padre e figlio è infatti un grande sogno di compensazione travestito da biopic finzionale, un film emanato dal suo stesso protagonista che ne è di fatto l’autore. La questione che tanto ha scatenato dibattito a seguito di Mank – la tesi su chi abbia scritto la sceneggiatura di Quarto potere e in quale proporzione – è mal posta; è giusto chiedersi chi sia l’autore della sceneggiatura, chi stia scrivendo davvero e cosa, ma non riguardo al film di Welles quanto a Mank stesso. La storia che stiamo seguendo è scandita da flashback, in un moto pendolare tra passato e presente che certo richiama la struttura di Quarto potere ma di cui è importante notare il ruolo delle didascalie esplicative battute a macchina, indicazioni tratte da quella sceneggiatura di cui Mank (uomo) è autore e personaggio e che Mank (film) mette in scena. Da un abisso di solitudine e angosciosa disperazione Mank sente la fine stringersi attorno a sé, e dal centro di questo labirinto nasce il suo bisogno libidico di riscrivere la storia, rimettere a posto il passato, limando qui e stravolgendo là, così da potersi collocare al centro di una classicissima parabola di zenit esistenziale e resurrezione morale.
C’è poco di vero in quel che Mank mette in scena di Herman J. Mankiewicz: di certo il suo temperamento, sferzante e annebbiato dall’alcol, al confine con la ludopatia; di certo le coordinate generali dei suoi movimenti dentro e fuori da Hollywood, dai suoi saloni di lusso agli studios in collina; di certo il rapporto conflittuale con l’enfant prodige Orson. Ma davvero poco altro, perché Mank non è stato paladino del socialismo californiano o salvatore di genti ebraiche in terra tedesca, né tantomeno democratico animato dal conflitto morale contro i potenti del cinema e della stampa. Puntualizzarlo non serve a nulla se si guarda al film in cerca di un attestato di verità (concetto del resto ampiamente problematizzato dal cinema illusionistico di Welles) ma diventa determinante per capire quanto Mank sia una sorta di mock-autobiography, un fake memoir pensato per mettere in scena un bisogno di redenzione che può essere soddisfatto solo attraverso il potere falsificante del cinema. Maestro a sua volta dell’inganno, dell’identità frammentata che manca di ricreare un tutt’uno, Fincher resta fedele alla natura illusoria della (sua) immagine, con l’obiettivo principale di restituire credito e spazio al sottobosco della macchina hollywoodiana, stuolo invisibile di drammaturghi e commediografi che in fuga da New York per Los Angeles ha contribuito in modo fondamentale all’innesco della fabbrica dei sogni.
È per questo motivo che dove Quarto potere complica Mank semplifica, dove il cinema di Welles sfrutta i rivoli della detection per mostrare l’impossibilità di racchiudere in un’unità la vita e la personalità di un uomo, Mank al contrario scioglie ogni ambiguità attraverso un’ordinata sequenza causale che carica la stesura di Quarto potere di valore politico e rivalsa morale.
Di qui il carattere fantasmatico della rievocazione hollywoodiana, esumazione dickensiana che paga certo il rischio dell’effetto vetrina, della resurrezione digitale fredda e patinata, ma che comunque nel suo bianco e nero così nero e poco bianco, così scuro a vedersi e fumoso e spento anche in pieno sole, trasforma questo sogno di compensazione in un teatrino di ombre e vapore. Di qui l’approccio scolastico alla Storia del cinema, di cui vengono sottolineate storture e veleni e pochezze mentre volti e nomi entrano ed escono da un palco il cui unico riflettore è puntato su di lui, Mank, finalmente protagonista della sua vita attraverso vicissitudini romanzate e ideali. Di qui, infine, la gestione goffa e obiettivamente fuori tempo massimo del comparto femminile, coro impersonale il cui compito è accudire, sostenere e stimolare il genio incompreso e tormentato mentre l’unico personaggio autenticamente tridimensionale – la Marion Davies incarnata da una bravissima Amanda Seyfried – trova a tratti spazio tra le righe della storia, e quando lo fa innesca alcune delle scene migliori del film.
Non è solo perché Don Chisciotte è tra i tanti progetti negletti di Welles che il cavaliere della Mancha viene così spesso chiamato in causa da Mank; è lui il vero Don, che decide, dopo aver passato anni a scrivere di cerche e sfide e successi di altri, di immaginare trasfigurando la propria avventura, con tanto di mulini a vento, cavalieri rivali e una Dulcinea platonica e mai raggiunta. Ma in tutto ciò il film di Fincher – e in questo, chiaramente, di Fincher figlio, dell’autore di The Game e The Social Network in particolare – è anche una fotografia che dal passato ritrae storture e crisi del presente, un film genuinamente politico per come denuncia le implicazioni sociali del creare immagini, del fare cinema, sempre in conflitto con i dettami di quell’industria che comunque, per Fincher, è l’essenza del suo essere cineasta. Di tutti i registi contemporanei Fincher è il più vicino ad Hitchcock, per consapevolezza industriale, rivisitazione autoriale dei generi e manipolazione dello spettatore, e Mank ce lo ricorda per come viene messo in scena il costante conflitto tra poli creativi e produttivi. A Fincher poco manca dello studio system - che non ci sia nostalgia è evidente da come vengono ritratte le figure cardine del tempo - eppure non è certo Welles e la sua autorialità straniera, anarchica e gargantuesca, la via di fuga possibile per un regista come lui, che delle strutture e della macchina cinema, intesa anzitutto come meccanismo collettivo di finzione, ha sempre fatto la base del suo ruolo.
Volendo è quindi in questa rievocazione di (dis)equilibri industriali e implicazioni mediali narcotiche che possiamo ritrovare una complessità di stampo wellesiano; è nell’intenzione di guardare sempre alle dinamiche frattali del contemporaneo, per cui l’immagine rimanda tanto a sé stessa quanto al mondo che la contiene, anticipandone contraddizioni, limiti, sfide, che lo sguardo di Fincher riesce a ricavare il meglio dal compromesso industrial/autoriale - e le cui implicazioni anzitutto mediali e di consumo non sfuggono certo a chi opera ormai tramite lo streaming di Netflix, che anzi diventa parte attiva del discorso di rievocazione storica. Non a caso la Hollywood di Mank è quella della grande crisi del ’29, del terremoto suscitato dalle trasformazioni tecnologiche, delle sale sempre più vuote e del pubblico che nulla possiede delle immagini che vede se non il ricordo.