Old Man & the Gun
Un poliziesco a metà, che celebra con uno squisito omaggio metacinematografico, la carriera e il cinema di Robert Redford
Succede che certi film finiscano tolti dalla potestà del proprio regista e consegnati ai posteri come prodotti personali di un attore. In pochi, in occasione del suo anniversario, hanno ricordato che era stato John G. Avildsen a dirigere Rocky, e non Stallone stesso. Succede. Quando l'immedesimazione tra personaggio e interprete è così marcata, così evidente, diventa impossibile pensare che quella storia non sia parto dalla mente del suo stesso protagonista. David Lowry, regista e scrittore di Old Man & The Gun, è un tipo particolare, “autore” come lo si intende in America (cioè: creativo intellettuale e indipendente, almeno finché non gli viene offerto il remake disney di Elliott il drago invisibile), e personalità quantomeno interessante, tra quelle emerse in questo decennio. Ma questo film non gli appartiene. Dalle prime immagini promozionali, dalle voci dal set, fino alle presentazioni per i festival di mezzo mondo e l'uscita americana, Old Man & The Gun è stato annunciato essere l'ultimo film di Robert Redford. Ed è diventato il suo.
La storia del sessantenne Forest Tucker (Redford), affiancato da una coppia di geriatrici complici (Danny Glover e Tom Waits), che dopo una vita passata ad evadere di prigione si dedica alla rapina in banca “di classe” (senza sparare, senza urlare, consolando le cassiere terrorizzate) non poteva avere nessun altro volto se non quello dell'eterna simpatica canaglia d'America. Robert Redford, l'uomo che non ucciderebbe mai, che non può essere cattivo, che a ottant'anni non chiede altro che di imbarcarsi in un'altra storia d'amore con Sissy Spacek. Ma all'ennesima evasione, Tucker sentirà il peso degli anni, la voglia di fermarsi, la stanchezza. E dovrà decidere.
Come in una sorta di comunione di intenti, Lowry e Redford invertono il tono che si potrebbe aspettare da un caper movie con anziani (un genere più proficuo di quanto non sembri). Poca commedia, niente azione. Old Man & The Gun è un film di saluti, di bilanci finali: si ascrive con stile e abilità in un'ottica di cinema crepuscolare da terza età, in cui lo sguardo è perennemente rivolto all'indietro, a quello che i personaggi hanno fatto prima, al loro rapporto con questi fantasmi. L'indagine di Casey Affleck è uno strumento narrativo, non è di questo che parla il film. Come lui, così tanti altri pesi massimi come Glover e Waits (ma anche caratteristi leggendari come Keith Carradine e Isaiah Whitlock) finiscono messi da parte.
Il film è tutto Redford. Che lo cannibalizza, lo fa suo, lo plasma a sua immagine e somiglianza relegando tutto il resto del comparto creativo (attori e regista) al ruolo di spalle. Ed è proprio questo che distingue Old Man & The Gun da, per dire, Vivere alla grande di Martin Brest. Il film di Lowry si trasforma sotto i nostri occhi in un'operazione esplicitamente metacinematografica, con spazio per immagini di repertorio, ringiovanimento digitale, rimandi visivi espliciti a mille film, da Butch Cassidy a Tutti gli uomini del Presidente. E ovviamente la metafora: l'uomo che tutta la vita ha derubato banche grazie solo al sorriso e all'eleganza è in fondo il vecchio divo, che ha sempre recitato davanti a un pubblico, e come lui sente avvicinarsi il momento di farsi da parte.
Old Man & The Gun è dunque un poliziesco a metà. Come il suo hemingwayano titolo lascia supporre, non vuole tenere gli spettatori sulla punta della sedia con il racconto di una rapina ad alto rischio (il pericolo non si sente mai), ma spingerli a fare i conti con l'avvicinarsi della fine, del come affrontarla. Con tanta piacioneria americana (il suo protagonista è un buono a tutti gli effetti, senza traccia di ambiguità: d'altronde, è Robert Redford!), ritmi lenti, e tono da commossa festa di pensionamento tra amici.
Tutto in Old Man & The Gun vive per il suo divo. Sembra che tutto il progetto, in realtà in produzione da anni e tratto da un celebre articolo-inchiesta del 2003, non sia mai in fondo esistito se non come elegia della sua star. Vedere Old Man & The Gun senza curarsi di cosa rappresenti per Redford è possibile, ma viene a mancare una parte essenziale della visione. È un film di congedo, che pure si chiude con una nota beffarda, che sembra rimandare ancora una volta a un prossimo colpo, un prossimo film, come se la fine non debba arrivare mai, e ci sia sempre un'altra prigione da cui evadere, un'altra pallottola da cui guarire e un'altra famiglia da lasciarsi alle spalle. Redford potrebbe alla fine ripensarci, al suo ritiro (ci ha ripensato Clint Eastwood, a ottantotto anni). Ma il suo epitaffio lo ha scritto qui.