Light of my life
Casey Affleck debutta alla regia di finzione con un disaster movie in grado di convincere soltanto in parte lo spettatore più avvezzo al genere.
Si apre con un lungo racconto di un padre a una figlia Light of My Life, primo film di finzione di Casey Affeck, di ritorno dietro la macchina da presa dopo l’interessante esperimento del 2010 rappresentato da Joaquin Phoenix - Io sono qui!, mockumentary sul grande attore americano, a quel tempo cognato di Affleck. Ben undici minuti di runtime espressamente consacrati alla dettagliata enunciazione di una favola, inventata all’impronta dalla figura paterna ricorrendo liberamente al topos biblico del diluvio universale e dell’arca di Noè, una “variazione sul tema” i cui riferimenti non sfuggono affatto all’intelligente e curiosa ragazzina.
Un padre e una figlia dunque, soli, in una tenda immersa nell’oscurità dei boschi rischiarata dalla luce calda di un lume, si estraniano dal mondo, si avvolgono tra le dolci coperte della fantasia, dell’invenzione creativa. Che lì fuori ci sia un mondo distopico in cui le donne sono quasi tutte morte a causa di un misterioso virus, come vuole la trama del film, o che invece possa esserci la vita sbilenca che tutti conosciamo, coi suoi mali forse un filo meno apocalittici (almeno su scala globale, ma forse neanche, se si pensa alla follia dell’inquinamento e del cambiamento climatico), poco cambia: immoralità, ingiustizia, crudeltà, violenza, dolore, malattia, sono volti dell’orrore che la civiltà umana evoca, esorcizza, subisce e sperimenta da sempre. Nel tramonto della civiltà, allora, così come alla sua alba, sembra dirci questa prima emblematica sequenza iniziale, favola e favella possono offrire una via di fuga dalla tagliola della realtà e delle sue possibili ma indicibili brutture. A maggior ragione se a raccontare, a farsi rapsodo, è un padre il cui unico scopo nella vita è salvaguardare l’amatissima figlia.
Un modo per connettersi: questo sono le storie nelle parole stesse usate dal papà (il personaggio di cui non si conosce il vero nome interpretato da Casey Affleck) per spiegare alla piccola Rag (l’incredibile Anna Pniowsky), diminutivo di Raggedy Ann – il cui nome è lo stesso d’una bambola di pezza protagonista di vecchi libri illustrati per ragazzi – il senso più profondo del raccontare. E quando lei gli chiede cosa succederà se lui muore, lui si inventa che anche se fosse legato, pugnalato, tramortito, messo in un blocco di ghiaccio e scaricato sul fondo dell’oceano, ne verrebbe fuori per andare a cercarla. «Anche se a te sembra impossibile, mi dispiace ma è vero», è la rassicurazione paterna. La forza dei sentimenti, dell’amore, viene fuori in tutta la sua potenza immaginifica, epica, romantica, proprio nell’eroica e stoica negazione della realtà, riplasmata taumaturgicamente dalla parola: è la resistenza di questi affetti, al cui centro c’è il rapporto padre-figlia, il tema principale del film.
A scorrere sotterraneamente in Light of My Life, sotto le parole sussurrate e il pragmatismo del padre, è la disperata paura di morire prima che un figlio sia diventato adulto e abbia imparato a fronteggiare le crudeltà del mondo, il terrore di abbandonare la propria creatura al suo destino in una landa ancora più avvelenata, devastata, violenta e tossica di quella ricevuta in eredità. E questo valeva tanto per il Cormac McCarthy di La strada (riadattato per il cinema nel 2009 da John Hillcoat) quanto per il Casey Affleck di Light of My Life.
Da questo punto di vista il film può dirsi riuscito: la scelta metalinguistica di assegnare alla narrazione un valore salvifico, liberatorio, per quanto già ampiamente abusata nella storia della letteratura e del cinema, contribuisce a restituire al mondo distopico una poetica e commovente – nella sua oggettiva incapacità di incidere materialmente sul miglioramento delle condizioni di vita – possibilità di obiezione. Un’obiezione, una resistenza, di natura spirituale, dunque sottile, universale ed eterna. Non si può non provare qualche brivido nel vedere papà Affleck impegnarsi in questo disperato tentativo di sottrarre la figlia alla mostruosità dell’abbrutimento umano (la violenza omicida, la totale scomparsa della fiducia e della solidarietà sociale, la legge del più forte) per mezzo della fantasia o di mani pronte a chiuderle gli occhi nei momenti di massima atrocità. E le ottime performance attoriali, così come la buona scrittura dei dialoghi (anch’essi opera di Affleck) danno ulteriore forza a questo aspetto del film. Ma ciò non basta a farne un’opera del tutto riuscita, convincente.
L’impianto visivo e quello narrativo non brillano certo per originalità e scontano una certa prevedibilità che non può non influire sul piacere della visione e sul giudizio a posteriori. L’impressione è che non ci sia poi così tanto da aggiungere, né per quanto concerne i meccanismi, i motivi ricorrenti e gli stilemi del genere del disaster movie, né per quanto riguarda il pur ben orchestrato rapporto genitore-figlio, a ciò che è già stato scritto e girato finora, The Road in primis.