Six Men Getting Sick, The Alphabet, The Grandmother, The Amputee - I primi corti di David Lynch
Genesi e linguaggio. Tra arti plastiche e approccio istintivo, i primi quattro corti di David Lynch contengono già in nuce la visione dell'autore su un'esistente guardato sempre con stupore, ombre comprese.
Nel 1966 David Lynch è uno studente spiantato della “Pennsylvania Academy of the Fine Arts” e sa a malapena cosa sia una fotografia. Per intenderci, crede che il 16mm sia un modello di cinepresa (parole sue). Non ha solide basi letterarie e non vanta una grande cultura cinematografica. Per fortuna, è rimasto folgorato da Francis Bacon, ha talento nella pittura e ha già scoperto quanto siano affascinanti le formiche rosse che strisciano sulla resina dei ciliegi. Sa anche che, se si osserva il brulicante microcosmo di un giardino alla giusta distanza, il mistero della nascita si rivela un evento tutt’altro che pacifico – e dunque assai intrigante. Tanto basta, se hai uno sguardo unico su quanto il mondo ha da offrire. L’ingresso del ventenne di Missoula nell’audiovisivo è istintivo, anti-teorico; di sicuro non programmato. La risposta a un formicolare sotto l’epidermide del cosciente, come il fermento che si agita sotto la corteccia degli alberi osservati dal giovane fin da bambino. Lynch, che per il momento si è occupato solo di quadri, si limita a rispondere a una pulsione semplice, subitanea: mettere in movimento delle immagini. Vale a dire, infondere un afflato vitale.
Così nasce Six Men Getting Sick (1967), letteralmente riassumibile nella formula usata da enrico ghezzi a proposito di Dune: «scultura più pittura più movimento». Sei teste, modellate sul volto del regista, fanno da schermo alle immagini di un quadro filmato nel suo farsi, fotogramma per fotogramma. Sei uomini che, appunto, stanno male, fino a riversare in vomito il contenuto tossico dei loro stomaci rigonfi, simili a motori di automobili ma anche a sacche purulente, mentre le braccia si muovono con scatti robotici. Il tutto ripetuto in loop, con il suono sfibrante di una sirena ad accompagnare la proiezione (una Sinfonia industriale ante litteram, per citare un altro lavoro lynchano). In sostanza, un processo di trasformazione di corpi come macchine (originariamente, il progetto di Lynch, già interessato alla commistione tra organico e inorganico, è quello di realizzare una combinazione tra carne e macchina). Gli stessi processi biologici affiorano alla mente in subbuglio dell’autore nella loro meccanicità. È un momento importante nella filmografia di Lynch. Non solo, banalmente, perché si tratta del suo primo ingresso nell’audiovisivo, ma soprattutto perché con Six Men siamo di fronte a un momento epifanico, illuminante (agli occhi del critico) per comprendere l’approccio al cinema e all’esistente del regista. In pochi minuti, si condensa la forza di una rivelazione istintiva – la vita e i suoi ingranaggi come il più affascinante dei misteri –; folgorazione da assecondare, così come per tutti i futuri progetti – anche quando entrerà in gioco il supporto strutturale di una sceneggiatura. Inevitabile allora che il corto ci parli anche della creazione nella sua accezione artistica, del dare letteralmente vita (animare!) a qualcosa, esso stesso arcano processo generativo, su cui le parole dell’autore spesso si fanno laconiche (più per l’inadeguatezza del linguaggio verbale che per scelta). Da qualche parte, sotto i marosi del subcosciente, si intravvede in nuce, e a posteriori, il fondo essenziale alla base degli ibridi biomeccanici di Eraserhead, Velluto blu, dei corti della maturità, delle industrie forgianti di Elephant Man e Twin Peaks, dello stupore di fronte al cuore selvaggio del mondo. In questo primo film painting o videoinstallazione sono già presenti due delle ossessioni di Lynch che ritroveremo nei successivi cortometraggi e nei lunghi: il processo generativo e il linguaggio.
La questione del linguaggio verbale, che in Six Men viene lambita in negativo (cioè per via della sua assenza), con The Alphabet (1968) si fa invece centrale. Onirismo e subconscio hanno qui un ruolo decisivo: il corto è un sogno orrorifico sulle paure legate all’apprendimento verbale vissuto come esperienza coercitiva, con una figura femminile, Peggy Reavey, prima moglie di Lynch, il cui incubo sembra tramutarsi in disagio fisico. Apprendimento e verbo sono minacce soggiacenti e pronte a esondare. Le lettere dell’alfabeto, sulle note della classica canzoncina imparata alle elementari, via a via trasformate in un imperativo urlato e intimidatorio, vanno a ingolfare come scorie la mente inerme della ragazza. Dunque, se la parola concepita come struttura asettica è fin da subito corpo estraneo, alterità temuta e indottrinamento, nel tempo Lynch si prenderà una rivincita sui rigidi codici linguistici, intervenendo cioè sul linguaggio verbale attraverso gli strumenti delle stesso, con libere e oscure associazioni di significato, infrazioni logiche tra domanda e risposta (soprattutto nella serie Rabbits), simbolismi, effetti reverse, neologismi. Processi di scardinamento comunicativo che si ritrovano non a caso anche nel recente What Did Jack Do?, interamente concepito come un serrato campo-controcampo poliziesco, dove la comunicazione deraglia dagli ordinari binari di senso. Oppure, come in The Amputee (1974), quarto lungometraggio e ultimo prima dell’uscita di Eraserhead, si instaura uno scarto vistoso tra immagine e parola: qui una donna senza gambe scrive una lettera piena di frivolezze amorose a un’amica (sentiamo la voce over) mentre un medico (lo stesso regista) si prende cura degli arti sanguinolenti della ragazza.
Ancora in The Alphabet torna inoltre la suggestione di un organismo in trasformazione – qui una crescita intellettiva degenerata in incubo –, della nascita come evento necessariamente traumatico e fascinoso. Aspetto su cui ruota The Grandmother (1970), il primo confronto del regista con una sceneggiatura articolata e una chiara formula narrativa. È anche il primo indizio di come, parafrasando David Foster Wallace a proposito di Twin Peaks, in Lynch l’ordinario visibile e l’oscuro latente non siano mai dimensioni nettamente separate, a scanso di concilianti prospettive moralistiche. Nei circa trenta minuti del corto, compare la prima delle famiglie disfunzionali del regista, il primo degli orrori quotidiani, reiterati e palesi. Un contesto familiare inquietante e violento, calato però in una dimensione primigenia: l’Uomo e la Donna, dei grotteschi Adamo ed Eva, emergono dalla terra come abitanti di un mondo senza coordinate, frutti marci votati alla violenza. È la prima delle cosmogonie lynchane che troveranno massima espressione artistica e metafisica nell’ormai iconica sequenza dell’ottavo episodio di The Return, in cui si assisterà al rigenerarsi eterno del bene e del male e alla comparsa del demone Judy, causa una bomba atomica scoppiata nel Nuovo Messico, – ancora e forse in modo definitivo l’esistenza legata a una prospettiva macchinica, dove in più si fondono e si confondono atomi e spirito. Ma se, dice la Genesi, «in principio era il Verbo», qui il linguaggio è ancora una volta scardinato, insufficiente e, ancora una volta, usato soprattutto per intimorire. Dapprima i due esseri umani riescono a esprimersi soltanto latrando come cani. Poi, l’unica espressione che riusciranno ad articolare sarà un incomprensibile rimprovero ringhiato al figlio della coppia. Il vero evento generatore, però, è la nascita della nonna del titolo, nata come un fungo da una sorta di tronco d’albero, tra gli umori viscosi che escono dalle cavità vaginali dell’arbusto, in una commistione qui triplice di elementi umani, vegetali e sintetici (un effetto quest’ultimo forse non voluto ma ottenuto comunque dalla scultura utilizzata). Una presenza rassicurante per il bambino, ma impossibilitata a risolverne gli incubi giornalieri. Non è forse un caso che nonna e nipote comunico soltanto attraverso i gesti. Eraserhead avrà una produzione travagliatissima e tempi biblici prima di vedere la luce, ma i lavori iniziano già nel 1971, un anno dopo The Grandmother. I germi – e le spore – sono già stati gettati. Basta aspettare che germoglino.