Lucky
L'opera prima di John Carroll Lynch è un omaggio al grande Harry Dean Stanton, un toccante racconto della senilità e della fine di una vita.
Lucky è la storia di un uomo che vive in un paese della frontiera americana dei giorni nostri. In questo Far West ridotto a tranquilla vita di periferia, un arzillo novantenne (il compianto Harry Dean Stanton) trascorre la propria quotidianità: fa esercizio fisico, beve il suo caffé, vive la sua cittadina e, soprattutto, fuma. La rassicurante ripetizione dei giorni si inceppa inaspettatamente quando Lucky perde e forze e cade a terra. Quello che segue è un percorso di introspezione e messa a patti con i limiti della propria esistenza.
Lucky è un'opera di raro equilibrio: classica nell'impianto, sa essere libera e creativa nel mettere in discussione le proprie fondamenta. Ad esempio, il regista John Carroll Lynch sa dipingere la periferia d'America con uno sguardo in sospeso tra un'estetica western e la sua decostruzione in chiave ironica: Lucky sembra un cowboy di altri tempi, col cappello ormai sgualcito, l'armonica a bocca e lo sguardo di chi è sopravvissuto ad un'epoca da tempo conclusa. Non ci sono cavalli, né pascoli: solo una tartaruga dal nome President Roosevelt, animale da compagnia di un altro Lynch, il David Lynch che ben conosciamo e che qui interpreta il ruolo di uno degli amici del protagonista. La semplicità apparente dell'ambientazione, suggestiva ma già vista, si accompagna alla cinefilia e a trovate più autoriali: tante sono le suggestioni e le citazioni evocate dalle immagini, che spaziano dall'incipit di Paris, Texas ai racconti crepuscolari del post-western, dall'America primordiale di David Lynch stesso fino alla poesia del quotidiano celebrata, ad esempio, dal Paterson di Jim Jarmusch.
Anche l'intreccio è un fatto di equilibrio: la storia, in sé molto semplice, è controbilanciata da sequenze quasi oniriche o surreali, che ne complicano l'assetto e la lettura. E così, mettere in scena l'avvicinarsi della fine e la piccolezza dell'uomo rispetto alla Natura è, al tempo stesso, una confessione intima al telefono e l'immenso paesaggio della prateria, la semplice gioia di una festa e un litigio al bar con un avvocato che propone polizze sulla vita a un amico smarrito. Come dice Lucky stesso mentre completa il suo cruciverba, «la verità esiste»; non è, tuttavia, una verità trasparente o un realismo ingenuo e ideologico, quanto una ricerca o un enigma da percorrere scavando nelle forme dell'immagine, i suoi tic e i generi cinematografici attraverso cui visitiamo il mondo di Lucky.
Possiamo inquadrare Lucky nella categoria porosa, liquida, dei cosiddetti "film di attori". L'opera prima di John Carroll Lynch, attore egli stesso, è una costruzione agile che ruota attorno al suo straordinario protagonista, nella cui interpretazione troviamo le tracce di un lunghissimo percorso attoriale e umano. Harry Dean Stanton interpreta i suoi personaggi passati e se stesso, denunandosi come uomo e mettendosi al servizio di un cinema che lo sa valorizzare e rivelare. Il risultato è un film che, pur raccontando la propria storia e funzionando come opera indipendente, lavora anche su altri livelli, approdando dalle parti del documentario e del performativo teatrale. Stanton è un personaggio, ma è anche un uomo che viene sinceramente a patti con la fine della propria vita, e di questa lancinante sincerità Lucky è stracolmo. Il risultato, anche se non del tutto originale, è poetico e commovente.
Lucky incede senza fretta, come l'iconica tartaruga: sospeso nell'incertezza della propria minuscola crisi esistenziale, il suo protagonista esce dal tempo ciclico con cui si avvia il film per trasformarsi nella messa in scena di un lungo epilogo. Sfuriate, confessioni, paura e ricordi: la fine non è una sentenza, ma un luogo dell'animo che il personaggio interpretato da Stanton conquista per accumulazione, e con cui l'opera ci accompagna fino ai titoli di coda.