Dossier Satoshi Kon / 1 - Perfect Blue
L'esordio cinematografico di Satoshi Kon, (dis)continuità della memoria
“Lo sai perché riesci a capire che tu, in questo momento,
sei la stessa persona di un secondo prima?
Perché c’è la continuità della memoria.
E’ l’unica cosa che ci permette di costruire l’illusione
di avere una personalità unica e coerente.”
Al primo lungometraggio, Satoshi Kon ha già le idee molto chiare: parte dal romanzo omonimo di Yoshikazu Takeuchi, lo fa suo e ne sfrutta il meccanismo thriller per una ricognizione a raggio più ampio sui confini della percezione nella società dello spettacolo.
L’idol Mima Kirigoe abbandona la carriera musicale per recitare in un serial, ma la realtà e la finzione scenica si confondono, mentre veri delitti vengono commessi attorno a lei e l’immagine della Mima reale cerca di preservare la purezza del suo personaggio pubblico, messo in crisi e spogliato (letteralmente) dalla nuova carriera e dal sensazionalismo imposto dal successo. La sovrapposizione fra i piani narrativi inizia già a livello visivo, con il continuo scivolamento l’una sull’altra di azioni differenti, a volte distanti che vengono a rompere la continuità dei movimenti, creando nuovi intrecci possibili fra realtà altrimenti non direttamente collegate.
Un’azione prosegue fra due momenti distinti, la musica si interrompe mentre la vicenda fa un salto temporale, o di luogo, o di realtà. La frammentazione dell’animo di Mima in più direzioni è anticipata da una realtà che è essa stessa stratificata perché sottoposta al continuo accumulo di verità tra loro differenti. Un dialogo telefonico ci informa che Mima proviene dalla provincia, probabilmente ha lottato per il successo, l’ha inseguito, ma non riesce del tutto a gestirlo e sembra che le sue decisioni più importanti siano prese dal suo staff.
Esistono dunque tante Mima: c’è il personaggio pubblico che ha un suo spazio preciso nella scena musicale, c’è l’attrice emergente, c’è l’icona percepita dai fan, c’è la sua apparente intimità restituita da un sito web gestito da un misterioso appassionato (l’assassino forse?), la materia grezza che gli agenti intendono plasmare e i fotografi vogliono spogliare, ma poco si comprende della donna, sottoposta a scelte e pressioni. Il ritratto è veritiero nella misura in cui chiama in causa l’effettiva iconizzazione che, nella società giapponese degli anni Novanta, rende le idol simboli di un erotismo tanto castigato quanto insistente, adorate idealmente e bramate su un piano più direttamente fisico – un meccanismo oggi a noi molto più chiaro rispetto al 1997 in cui è uscito il film. Kon restituisce questo doppio passo attraverso una scarsa mobilità dei personaggi, riscattata da una macchina da presa quasi sempre in movimento, che carrella con grande scioltezza nei luoghi dell’azione, pur restituendo sempre la concretezza di uno spazio stretto (come spesso è dato dalle architetture “ad alveare” dei condomini giapponesi o dalla limitata azione dei set dove avvengono le riprese).
L’obiettivo dichiarato è rompere la “continuità della memoria” che lega ogni momento al precedente, in un gioco di specchi e scatole cinesi che restituiscano l’idea di una realtà frammentata, dove Mima e il suo doppio si rispecchiano nello iato fra la vita e la rappresentazione data dal serial televisivo e dalle varie schegge d’immaginario veicolate dai gangli della società-spettacolo. Il bello è la vertigine con cui il racconto si immerge in questo magma ribollente, tutto sommato, di sentimenti forti, dove la passione tracima nella follia e nell’ossessione. Siamo già ai confini di una realtà che si contamina con il sogno, ma la forza dell’esperienza è data dalla soggettività perenne, che finisce via via per escludere ogni forma di oggettività del mondo. Lo spettatore, insomma, è totalmente dentro lo sfasamento percettivo provato da Mima e la focalizzazione non cerca mai di scindere la visione dal fatto reale: l’effetto è quindi quello di una realtà “esplosa” dove la visione è reale e la realtà è un costrutto dato dall’intenzione di chi vuole imporre la versione della propria Mima.
Tutto questo avviene all’interno di una struttura non lineare e piena di depistaggi che però non recede dai dettami più puri del thriller, con omicidi cruenti, cliché radicati nella memoria dello spettatore (minacce, telefonate anonime, stalking, fino alla violenza fisica), in ossequio a un’idea di cinema-totale che sia esperienza tattile e umorale, ma anche sottile gioco intellettuale. Un’opera cervello ma anche una vera esperienza visiva, cruenta ma a suo modo anche buffa, per la leggerezza con cui tutto appare evanescente come la stessa Mima: una protagonista scissa fra i doveri del lavoro, la pesantezza tecnologica dei dispositivi che la riprendono, e l’iconografia idol che si muove eterea fra gli spazi attraversati. Un film che perciò è un po’ incubo, ma anche una sorta di strana fiaba in grado di veicolare fascinazione e un personale senso del meraviglioso.